Il silenzio ufficiale sulla permanenza del coronavirus, causa dei nostri tormenti, non ha mai significato che il maledetto virus sia stato vinto, e basterebbe la ricomparsa delle mascherine a confermarlo: poche (per adesso), ma ben visibili, proprio per il loro numero, al punto che sembrerebbero ingaggiate da qualche autorità per servirci da memento. Poco manca che portino un cartello sul petto con il fatidico Ricordati del Covid 19! Come fosse facile, direte voi…
Quelle che circolano in mascherina sono persone di buona volontà e soprattutto di buon senso: il Covid nel Nordest è vivo tutt’ora, eccome: e vengono comunicate, quasi con pudore, le cifre del fenomeno. Vale la pena di farci un pensiero: la prudenza è una virtù, e proteggersi dal male non è un gioco di società, ma diventa un impegno sociale, e magari anche morale.
In piazza se ne parla: “Stanno tornando le mascherine” ho sentito dire da uno che pratica l’ambiente in varie ore del giorno: voce neutra, senza emotività, ma quelle presenze tra la folla, ha detto un altro, “sono poco rassicuranti”. Anche se non si tratta di una pandemia di ritorno e l’infezione colpisce in casi limitati e in zone ristrette.
A proposito di mascherine, c’è chi ha ironizzato a suo tempo su un tormentone che tutti ricordiamo, con animo diverso naturalmente. Penso, per esempio, allo scrittore Ferdinando Camon, autore di un pamphlet intitolato sarcasticamente A ottant’anni se non muori t’ammazzano (Editore Apogeo, 2020) dove emerge questa frase irridente: “Spunta il giorno. Ma che succede? Le mascherine sono obbligatorie ma non si trovano da nessuna parte. Farmacie, ospedali, cliniche non ne hanno. Per il popolo, del quale sono parte, si ripete un problema antico e ricorrente, un problema eterno, un problema che bisogna assolutamente risolvere subito perché è questione di vita o di morte, ma che è per sua natura insolubile…”
Il castello, gli Estensi e la poesia
Il nostro bel dialetto fiorisce in poesia ogni anno nel castello medievale di Arquà in Polesine: voluto dagli Estensi della non lontana Ferrara, il maniero è oggi visitato come villa veneta (con affreschi del tardo ‘500) e accoglie il Premio letterario Raise (Radici) dedicato alla poesia e, insieme, alla narrativa nei dialetti della Lingua veneta ovunque si parli, con il risultato di concorrenti che vivono “alla fine del mondo” nelle Americhe o in Australia. Queste radici sparse lungo le vie delle migrazioni hanno ispirato l’inventore del premio, lui stesso migrante, l’ingegnere arquatese Giuseppe Schiesaro.
La festa della poesia si celebra oggi domenica 10 settembre nella corte del castello estense, e faranno spettacolo gli sbandieratori del gruppo Palio de Arquata che indossano costumi ispirati alla Corte degli Estensi. Proprio il casato ferrarese quest’anno è anche rievocato in un libro, un saggio storico firmato da Luisella Fogo. Il volume è arricchito da illustrazioni a colori che lega il paese alla grande storia: Gli Estensi e il Castello di Arquà Polesine edito per il Comune dai Fratelli Zampieron di Cadoneghe (Padova). Un omaggio alle secolari radici di un paese e un contributo alla cultura veneta.
Straniero si diventa
Fra le parole parcheggiate nel deposito dei discorsi di circostanza, non del tutto dimenticate ma comunque poco frequentate, c’è “straniero”. E forse è un bene, un progresso culturale. Straniero va insieme, se ci pensate, con le parole frontiera e confine diventate ambigue, non solo dalle nostre parti, in Europa, ma ovunque governino gruppi nazionalisti e despoti di nuova generazione che creano ostacoli alla libera circolazione delle persone (e lasciano passare le cose: merci, droghe, armi…).
Al posto di straniero oggi diciamo nordafricano, siriano, pakistano ecc. Così, tanto tempo fa, è stato per lo sbarco dei soldati americani che non erano fino al giorno prima solo stranieri, ma nemici. Un grande giornalista di allora, Arrigo Benedetti, ne scrisse un breve saggio, oggi ripreso dall’editore Sellerio in una antologia intitolata Dopo il diluvio (cioè la guerra mondiale) e pubblicata nel 2014. Mi ha colpito una osservazione in particolare. Straniero era anche “il padrone dei nostri emigranti, colui che dava guadagno, qualche volta ricchezza”. “In altri casi, angheria, sopruso”: il padrone “sempre restava a sé, distaccato nei privilegi della sua nascita e della sua diversa condizione sociale”. Sono parole scritte nel 1947 per un Sommario di storia contemporanea che invito a cercare e leggere: una radiografia firmata da grandi autori.
El filo
(poesia)
Doventar come ‘na volanda a marzo
che tacà la xe co’ un filo al gemo
e tuta la so vita xe quel gemo.
Se rompe el filo e tuto xe finìo.
Livio Rizzi (Rovigo 1905-1960)
Libera traduzione: Il filo. Diventare come un aquilone, ch’è attaccato al gomitolo, e tutta la sua vita è quel filo. Si rompe il filo, e tutto è finito (dialetto polesano).
Stavolta questi pensieri così fortemente veneti per argomento e familiarità, mi fanno rincrescere in modo particolare di non poterli condividere con mio marito Alberto, veneto fiero e puro e anche amante di poesia. Trasparenza e chiarezza soprattutto – grazie di esserci, Ivo!