Ascoltare dovrebbe essere un tassello importante dell’arte di vivere, un ascolto selettivo per sua natura, nel senso che ci rende capaci di isolare ciò che ci interessa in un preciso momento. Ma si ascolta per tanti motivi: per necessità, per abitudine, per lavoro ecc. E registriamo parole che ci intrigano. Per esempio, una sera io ho isolato questa voce da un talk show: “Lei non ha colto la sfumatura!”
Sfumare il discorso è una pratica che conosciamo, e può giovare nelle polemiche. Ma è anche una fuga dalla chiarezza, dal nitore del discorso.
Nell’uso corrente, l’essere sincero si dice “Dire pane al pane”, senza sospesi, senza retropensieri frenanti. Di questo stile aperto sono pieni i resoconti giornalistici, come ovviamente del contrario. Ne ho incontrati alcuni, recentemente, e sono interessanti, e privi di sfumature.


Il primo è dello storico Ernesto Galli della Loggia che sul Corriere della sera ha denunciato chiaramente certi vizi italiani documentati dal disinteresse del Potere. Ha descritto, infatti, tre situazioni con stile stringato che un tempo si diceva tacitiano: “…. abbassamento dei livelli standard dell’istruzione, della qualità della vita urbana, delle relazioni sociali, dell’intrattenimento e, ultimo, la decristianizzazione del nostro continente”. Questo si chiama, direi, sentirsi europei o, meglio, italo-europei e comunque si tratta dell’essere e del fare politico.
L’altro esempio è una metafora, potente nella sua brevità, che ho rubato ad Angelo Panebianco. Parlando delle schiere di migranti che concludono sulle nostre coste le loro odissee, il politologo bolognese dice che quei fuggiaschi provengono da paesi sopra i quali si stendono cupamente “cieli autocratici”, ovvero le popolazioni vivono sotto l’ombra di dittatori e signori della guerra.
Un altro modo di non badare alle sfumature che aiutano molti a non esporsi, lo offre la scienziata Ilaria Capua che sul settimanale “7” tiene una rubrica intitolata Noi, e altri animali. Proprio così: in quel “noi, animali” c’è il riconoscimento della nostra natura, senza infingimenti. Animali, aggiunge il saggio, che scrivono la Divina commedia, costruiscono astronavi che raggiungono la Luna e Marte, creano i vaccini che vincono le epidemie, elevano cattedrali a un Creatore dell’Universo, ecc. ecc.
Mestre, “effetto M9”


La mostra Rivoluzione Vedova in corso all’M9 di Mestre è così nuova per il Museo del Novecento, che invita a parlarne ancora grazie ad un libro, che è il prezioso Catalogo della mostra-evento pubblicato da Marsilio Arte per la cura di Gabriella Belli. Nelle sue pagine si leggono autori che interrogano la mostra e altri che rivelano le motivazioni all’origine della sua “invenzione” e “avventura” culturale: il Catalogo, in effetti, riassume l’evento mentre fa rivivere al lettore la visita concreta, fisica, coinvolgente.
Di avventura parla Michele Bugliesi (Fondazione di Venezia): M9 ha accolto “la sfida” dell’arte contemporanea che integra il deposito culturale proprio dei musei con un cambio di rotta: la frenesia del presente incontra la “lentezza” del linguaggio museale , che è “ascolto, studio, racconto del passato”.
Mestre è al centro del testo di Alfredo Bianchini (Fondazione Vedova) offrendo “uno spazio museale straordinario” che oggi “consente di far sentire la voce importante, anzi necessaria di Emilio Vedova” e favorisce “l’unione delle due città”, d’acqua e di terra. Una indicazione per l’avvio di un nuovo rapporto Venezia-Mestre?
Vedova doveva dipingere opere che incarnavano un “violento urtarsi di situazioni opposte” (Haftmann 1960), che esprimevano il “malessere” dell’artista veneziano negli anni Sessanta dell’altro secolo, quando era combattuto dal suo “essere dentro questa società e il volerne un’altra”. Il risultato fu una sofferenza che Gabriella Belli ha racchiuso in quattro parole: “Una via crucis laica”.
Dopo aver vissuto la mostra, e avere colto gli echi di una poesia drammatica, chiudo con un pensiero di Enzo Cucchi: “La poesia e la pittura sono identiche. Il problema è, stranamente, una questione di iconografia, di immagine del mondo. Si tratta di fermare l’immagine e di farne istantaneamente la sintesi, in qualunque maniera”. (Corsera).
Scivoloni e stonature


“Se ne dicono tante”. Questa frase ha un sottinteso che ci riguarda un po’ tutti: diciamo tante cose, dal sublime al meschino…… La voce a volte erompe con impeto incontrollato e quel tante diventa anche “banalità o sciocchezze” di cui potremmo/vorremo fare a meno. Voce dal sen fuggita… Ne troviamo tracce nel parlato giornalistico e televisivo e qualche volta ci facciamo caso perché certe espressioni stridono con l’uso corrente che supponiamo anche corretto. E così durante le cronache del Giro d’Italia ecco “stava andando a tutta”, dove un tempo la frase giusta era “andava a tutta birra”. Ma c’è anche, in altro contesto “Ci continueremo a vaccinare?” con la gemella “I dialetti si continuano a parlare” che è importante perché l’ha detta un professore della Crusca. Alla radio: “Posso chiedere una domanda?”
Che dire di certi scivoloni e stonature? È l’uso che fa la lingua, si dice, ovvero: È la vita, bellezza!”
A due voci


(poesia)
Dici “diverso”.
E io “uguale”.
Due opposti che pure non si oppongono.
A ben guadare:
è il tono della voce,
un’esitazione imprevista,
una pausa di troppo.
È la rettifica sull’onda del pensiero.
A ben guardare è quella sospensione che cambia le cose.
Non sempre quel che dici racconta quel che pensi,
ci sono stagioni ingannevoli nel corso del tempo.
Marcello Fois
Da 50 anni di bianca, Einaudi 2014