Vittorio Ometto col suo cappello da alpino pluridecorato e con i suoi 98 anni portati con energia e simpatia, arriva alla scuola secondaria di primo grado di Villanova di Camposampiero accompagnato dalla moglie Zita 91 anni , dalla figlia e da Maria Serafin, ex infermiera con la passione per la scrittura, che con Vittorio è riuscita a trascrivere in un volumetto la sua storia di deportato nei lager nazisti in Germania. Vittorio, dopo una lunga pausa causata dal covid, riprende il suo viaggio nelle scuole ed ora riparte da questo invito , alla presenza della Direzione Scolastica dell’ Amministrazione comunale, fautrice dell’ incontro in collaborazione con l’Associazione Combattenti e Reduci sezioni di Villanova e Murelle. In particolare conta la presenza dei ragazzi delle classi terze, che sono i destinatari del progetto del reduce, condiviso con Maria Serafin. L’obiettivo è quello di poter raccontare alle nuove generazioni la sua storia di deportato, la sua detenzione.
L’ultimo alpino
Vittorio è uno degli ultimi reduci in Italia della seconda guerra mondiale e della prigionia nei lager nazisti, dove ha vissuto la fame, la fatica, il dolore. Sofferenze, ricorda che non furono mai abbastanza forti come le torture e le privazioni a cui erano sottoposti gli 800 ebrei che ebbe modo di vedere nell’ultimo campo di detenzione in Germania. Seduto in aula magna con in testa il cappello da alpino, Vittorio comincia il racconto. Una testimonianza lucida e pacata la sua, seguito passo dopo passo da Maria Serafin, a cui lui ha raccontato e dettate le pagine intrise delle lacrime che non riusciva a trattenere e degli incubi notturni che ancora lo perseguitano. Ne è uscito un volume di 60 pagine dal titolo “Prigioniero in un lager”, un diario semplice e discorsivo «per far arrivare efficacemente il messaggio a tutti gli studenti» precisa la curatrice.
La storia dell’ultimo alpino in Germania
«Mi chiamo Vittorio Ometto e sono nato il 24 marzo 1924 ad Abbazia Pisani, piccola frazione di Villa del Conte, nel Padovano. Dicono che io sia l’ultimo alpino rimasto in vita fra quelli internati nei campi di concentramento della Seconda Guerra Mondiale». L’incipit da solo dice tutto. Poi il testo si addentra nell’orrore che ebbe inizio nel lager di Fallingbostel, nella bassa Sassonia.
Qui Vittorio arrivò nel settembre 1943 stipato in un vagone merci insieme ad altri 59 commilitoni fatti salire a calci e sotto la minaccia delle armi, costretti a respirare a turno da un minuscolo finestrino con grata e a fare i bisogni in un secchio. Per giaciglio solo paglia. Gli fecero credere che la motrice del treno fosse rivolta verso l’Italia e loro sarebbero tornati a casa. In realtà la tradotta era diretta in Germania e il viaggio durò 7 giorni. Quando arrivarono fu servito loro come rancio una scodella di brodo con sopra una spiga di grano, non commestibile.
L’armistizio
L’8 settembre 1943, con l’Armistizio, gran parte dei comandi militari furono colti alla sprovvista e i tedeschi disarmarono l’esercito italiano deportando i soldati nei lager in Germania e in Polonia. I militari italiani internati, non erano considerati prigionieri di guerra, e pertanto privati della tutela e dell’assistenza umanitaria della Croce Rossa Internazionale prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Vennero avviati a lavorare come schiavi nelle industrie belliche tedesche.
Ometto e il suo ruolo da alpino
Vittorio Ometto era addetto agli altiforni delle bombe e dei missili aerei. «La sveglia era alle 2 di notte. Le guardie tedesche facevano l’appello chiamando il numero di matricola e alle 4 si partiva. La fabbrica era a 4 ore di cammino e quando arrivavamo ci aspettavano 8 ore di lavoro. Quando uscivamo andavamo a prendere il rancio che consisteva in un tozzo di pane con condimento; alle 22.30 si rientrava in baracca, si aspettava l’appello della mezzanotte e poi alle 2 di nuovo la sveglia». Il cammino venne ridotto da 4 ore a 2 ore perché molti faticavano ad arrivare sul posto di lavoro per il fatto di essere molto debilitati.
L’alpino racconta
I nazisti nella loro logica crudele e perversa puntavano verso l’annientamento psicofisico. «Il calore delle presse aveva ridotto i vestiti a cenci, il poco cibo ci aveva resi debilitati e anemici. Calpestando le lamiere ardenti bruciai la suola di una scarpa e per 15 giorni camminai senza. Un giorno seppi che in una camerata era morto un commilitone. Andai a dargli l’ultimo saluto ma anche a prendermi le sue scarpe». Continua Vittorio: «Ogni due settimane facevamo i turni di notte per raccogliere i morti, lavarli e portarli in obitorio dove alcuni medici tedeschi facevano esperimenti sui cadaveri. Ci sono stati momenti che abbiamo invidiato i compagni deceduti: anche noi avremmo voluto chiudere gli occhi per sempre, per non vedere più tanto orrore, non sentire più alcun dolore».
Vittorio cercava di reagire ,era sempre molto attivo e incitava i compagni inneggiando al coraggio e alla libertà, durante la detenzione si era fatto degli amici che per lui erano come fratelli.
Oggi
Vittorio soffre tuttora di un dolore alla schiena a causa di una scudisciata che gli è stata inferta da una guardia nazista con un nerbo di ferro. «In fabbrica mi ero addormentato per stanchezza, sfinito sopra i cumuli di proiettili allineati. Sono stato svegliato da quella bastonata di punizione di cui tuttora porto i segni. Nel corpo come nell’anima».
I suoi vent’anni, Vittorio li ha computi nel campo di concentramento di Fallingbostel: era il 24 marzo 1944. «Come regalo un’uscita all’esterno nell’aria di primavera, con i campi che rinverdivano all’intorno. Ma proprio a fianco al nostro c’era un campo di ebrei, con il filo spinato come il nostro, solo con l’unica differenza che era elettrizzato. Avevo voglia di volare con l’immaginazione oltre tutti i recinti, alla ricerca di una libertà lontanissima».
Il ritorno dalla Russia
A pochi giorni dalla liberazione racconta che nel campo ci fu un falso allarme di un imminente bombardamento, i tedeschi sapendo che stavano perdendo la guerra si erano ulteriormente incattiviti, si nascosero in un bunker e attesero. Nel frattempo gli ebrei che colti ormai dalla fame e dalla disperazione che li attanagliava da lungo tempo razziarono i magazzini in cerca di cibo. Finito il falso allarme i tedeschi ritornarono alle loro attività e si accorsero delle razzie, cosi salirono sulle vedette di controllo del campo e dall’alto spararono a raffica sugli ebrei che erano adunati nel cortile, ne trucidarono 400 su 800. Questo il destino e la fine di persone innocenti, bisognerebbe rileggere Primo Levi e la sua storia, dove nel titolo del suo libro si dice già tutto “Se questo è uomo”!
A casa Vittorio Ometto tornò il 4 settembre 1945. «Il mio cavallo e il mio cane mi riconobbero subito e loro sì saltarono lo steccato. Per farmi festa».
Studenti curiosi
I ragazzi hanno posto delle domande a questo nonno dall’aria bonariaplice. E lui, è riuscito a soddisfare le loro curiosità, perché comunque per quanto tempo sia passato. Per quanto lontane siano certe immagini e certe ferite nel corpo, l’anima soffre ancora. E il sostegno di Maria è stato fondamentale, aiutando questo uomo a liberarsi in parte da certi orrori, da certe crudeli e spaventose immagini. Vittorio Ometto sarà a Villanova di Camposampiero il prossimo 1marzo alle 20.30. Presso la Sala Giovanni Paolo II, in piazza Mariutto, per incontrare la cittadinanza e tutti coloro che avranno modo di ascoltare la sua storia.
Complimenti a tutti voi. Salve nerino