31 dicembre 1944. Ho compiuto da poco 3 anni. Roma è stata liberata, ma l’Italia è ancora piena di tedeschi con il dente avvelenato per il nostro armistizio con gli Alleati. Nelle case, dove non si piange per chi dalla guerra non tornerà più, si va a letto presto per dimenticare la fame. Ce n’è tanta in giro, anche in campagna dove i contadini – secondo la loro natura risparmiosa – sono poco inclini a spalancare le braccia per niente.
Quando un pezzo di pane era un tesoro

Mia madre è arrivata qui da sola, vicino a Villa Lante di Bagnaia, con me in braccio e una strana bottiglia di cognac che conserverà religiosamente. Non le è rimasto nient’altro, perché la nostra casa di Civitavecchia è stata distrutta dalle bombe dei “liberatori” inglesi. Adesso si arrabatta come può: è magra come una ragazzina (si vede benissimo che mangia troppo poco ) ma è sempre allegra. Almeno quando le sono vicino. Io, al contrario, sono paffuto e tranquillo, senza un pensiero al mondo, nemmeno quello di avere un padre che non ho ancora mai visto. Però, qui non sto dicendo proprio tutta la verità. Un pensiero ce l’ho sempre da quando mi sveglio: mi sembra di avere sempre fame. Con questo, sia chiaro, non voglio far pena a nessuno. Anche se sono appena un bambino – parole di mia madre – non allungo mai la mano, ho la mia dignità. Ma se qualcunomi dà qualcosa (e me la danno tutti) è diverso: la accetto volentieri sorridendo. Sia chiaro che stiamo parlando di sopravvivenza: un pezzo di pane qualche volta è un tesoro.
Ecco, volevo arrivare proprio qui, al pane

Non quello secco duro come un sasso, ma al pancotto: ovvero pane vecchio messo con acqua sul fuoco finché si sgrana e accarezza lo stomaco. Ne ho un ricordo che mi scalda ancora il cuore. Al piano superiore della casupola dove c’eravamo rifugiati ( una stanza e uno sgabuzzino ) viveva un vecchio da solo, con grossi baffi e un cappello in testa che non abbandonava mai. La moglie era morta da anni e dei due figli in guerra non sapeva più niente. Una lettera da Roma li aveva dichiarati dispersi e lui aspettava che li ritrovassero. Chi è disperso non è morto: in un modo o nell’altro prima o poi ritroverà la strada di casa. Era quello che diceva a chi gli faceva coraggio per consolarlo, ma quando era da solo si sentiva un macigno nel cuore e faceva fatica perfino a respirare.
Uno strano amico

Come tutte le persone anziane e povere di quel tempo era rimasto senza denti e poteva inghiottire soltanto roba liquida: minestrine quando era possibile e pancotto quasi sempre. Perché dei due sfilatini che gli portavano ogni giorno aveva gran cura, non ne disperdeva nemmeno una briciola. E quello che avanzava metteva da parte. E’ così che quasi ogni giorno, alle una in punto, dalla tromba delle scale mi sentivo chiamare: “E’ pronto. Sali su.” E io, con l’ovvia autorizzazione di mia madre mi arrampicavo per otto gradini. Entravo in quella che era sala da pranzo, cucina, salotto, e mi sedevo con fatica al tavolo apparecchiato. Sopra c’erano una scodella, due cucchiai e due tovaglioli. Nonno Alfredo si faceva il segno della croce, mi guardava e con un cenno della mano dava il via. Un cucchiaio dietro l’altro, senza fermarsi mai perché il pancotto si raffreddava, ma ben attenti alla cadenza. E spesso esplodevo: “Non è giusto, hai preso una cucchiaiata in più, adesso me ne spettano due.” Lui con pazienza aspettava, poi riprendeva.
Eravamo amici e gli amici si vogliono sempre bene, anche quando litigano. E’ così che sono cresciuto e mi sono preparato al primo Capodanno di guerra che ricordo. Con pane, acqua calda senza sale e tanta fame. Ma anche con tutto l’affetto del mondo.