“Non dico niente, però mi infastidisce”. Sulla bocca di molti, compresa la nostra, questa frase suona spesso, quando certi atteggiamenti dei nostri concittadini ci toccano da vicino, e non ci piacciono. Piccole azioni che urtano la sensibilità, oltre alla buona educazione. C’è chi ti spintona sul marciapiede perché proprio non ti vede, come tu fossi un fantasma, e non si scusa; e ci sono quelli che attraversano la strada quando il semaforo è rosso e gli automobilisti inchiodano e urlano e loro ridono beffardi: te l’ho fatta. E non sono tutti “foresti” appena sbarcati a Lampedusa: ci sono i “nostri” che non sempre sono i ”soliti” giovani. E poi ci sono quelli che tengono aperti i loro commerci fuori dall’orario stabilito dalla legge e rumoreggiano nelle ore del riposo altrui. Sono i nostri coinquilini di casa Italia, i non integrati, una categoria che elude, diciamo così, le regole della convivenza.
La casa Italia non è per tutti

Ho scritto “non integrati” non per caso. La convivenza, si sa, è difficile, diciamo che la si deve conquistare, anzitutto come bene culturale prima che materiale: vivere insieme è una necessità, non un hobby. I gesti hanno in sé un pensiero che li giustifica. La Scuola, che i nostri governi non amano o dimenticano nella lista delle priorità, chissà perché, dovrebbe trasmettere quei saperi che andavano sotto l’etichetta di educazione civica. La televisione può essere educativa e contribuire a risolvere il problema.
Casa Italia ha le sue regole

Questo per quanto riguarda i “nostri”, mi ha scritto un’amica, “ma per quelli che sono i naufraghi della Storia? Fermo restando che l’Italia esporta laureati e importa disperati, – argomenta, – dobbiamo forse insegnargli l’Abc della convivenza nel nostro mondo?” Già, ci sono “loro”, quei pellegrini della libertà che attraversano il Mediterraneo: hanno vissuto da sudditi, in strati sociali infimi, fuggono da paesi dove democrazia è una parola lontana, schiacciati sotto il tallone di ducetti corrotti e anche sanguinari.
Proprio a quegli erranti, sono convinto, dovremmo trasmettere una semplice verità: qui si respira libertà, una condizione che può “dare alla testa” a chi è vissuto in soggezione e disuguaglianza. Ma proprio a loro, che vengono da un altro mondo, dovremmo consentire di assimilare gli usi e i costumi di una Democrazia delle Regole.
Il profumo nel sacco

Il vento misterioso che porta folate di ricordi e ci scuote a volte come rami frondosi, è passato anche l’altro giorno nella mia mente. È accaduto mentre camminavo senza meta per Mestre e ho notato un albero solitario, un tiglio che stava rivestendosi di fiori. Secondo il calendario della loro specie, cioè fra giugno e luglio si ricoprono di colore e di un profumo intenso che ci porta vero l’estate.
È bastato sfiorare un singolo albero fiorito in città, eroico nella stretta del cemento e dei suoni meccanici della vita concentrata, e il vento dei ricordi mi ha toccato come un sussurro subliminale, tutto mentale, facendo nascere una scena perfetta nei particolari. Il profumo del tiglio di città è stato come una fionda che mi ha lanciato lontano. Perché era il profumo di casa, del paese e di una stagione lontana.
A Casa Italia anche i tigli in fiore

Rivedo la scena: una schiera di tigli in fiore allineati lungo la fossa medievale del Castello di Arquà Polesine (Rovigo) e persone forestiere che nella loro ombra si preparano a salire verso le “corone dense e ampie” delle belle piante ornamentali che, non appena si addormenta il vento, e le foglie non si agitano più, trasmettono una vibrazione intensa e ronzano sotto l’assalto di migliaia di api e di altri insetti impollinatori.
Il ronzio è profondo e quasi minaccioso, ma non ferma quei forestieri che sono arrivati in paese per raccogliere nei loro sacchi i fiori melliferi che “godono di proprietà medicinali” (v. Gli alberi d’Italia, nella collana I miracoli della natura,Giunti 1974), e li vendono a qualche industria farmaceutica.
“Insaccano anche il profumo!”, mi dico, e penso con riconoscenza a madre Natura per il dono, per la gratuità dei loro fiori e dell’ombra. E mi dico sottovoce: anche noi umani possiamo e dovremmo essere più spesso dono agli altri (natura inclusa).
Rime d’amore

(poesia)
Il sordo suono sottopelle
viene dal motore oscuro
che si chiama cuore, strumento
sofisticato che ci scuote il petto
nel buio prenatale
e batte indifferentemente
vuoi per gioia o per rabbia
e segna, se ci pensi, il grado
di febbre del nostro presente.
Come un basso continuo
o l’immortale assolo
d’una vecchia partitura,
a volte s’incanta – sono istanti
di vuoto… – e ti ricorda
che in musica esistono
anche i ritmi sincopati.
“Questo suono”, tu dici,
“che ascolti da vicino
quando ci abbracciamo
è la voce del mio Io.
Quel cuore motore forse
un poco si è usurato,
ma non è mai stanco
quando rima con amore”.
Anonimo ‘24
I tigli in fiore e il loro profumo dolcissimo … fanno parte dei miei ricordi di adolescenza. Ogni anno, attrezzata con forbice e cestino, andavo a raccogliere appunto i fiori dei tigli che poi a casa la mamma faceva seccare. Cuciva poi dei sacchetti di cotone x conservarle e per regalarle a Natale a zie e amici. In quei tempi lontani, tutti conoscevano le proprietà anti febbre del tiglio, ma anche per infusi profumati con magari l’aggiunta di un pò di miele. Solo qualche anno fa, un mio compagno di classe e
vicino di casa mi ha confessato che arrivava regolarmente anche lui con un cestino – e che era un suo modo per farmi – la corte !! Tempi beati !!
Penso che bisogna cominciare a far circolare il vocabolo ” DOVERE” a tutti i livelli , negli asili nido , nelle scuole elementari , nelle università, nelle parrocchie , negli ambienti sportivi e politici e giornalistici e televisivi .
E dico questo , non perché sono vecchia, ma perché mi procura fastidio il permessivismo imperante, diseducativo e nocivo alla crescita umana . Nel mondo animale e vegetale esiste da millenni la regola . L’homo sapiens pensa di poterne fare a meno …..e riecco le guerre, le discriminazioni, le armi sofisticate e le emigrazioni di massa …. tanto la patata bollente ritorna sempre nelle mani dei più deboli .