Nelle antologie di giornalismo, fatte quasi sempre da chi non sa quanta fatica costa conquistare una notizia, il suo nome faticherete a trovarlo ed è un peccato perché alla voce “C”, cronisti, la vera aristocrazia di questo mestiere da testimoni del tempo, ha un posto di prima fila. Ma se passate da via Poerio, nel cuore di Mestre e svoltate in calle Legrenzi, alla fine vi ritroverete in una piazzetta elegante dove il suo nome potrete leggerlo inciso nel marmo, come in segno di ringraziamento la sua città ha voluto: Corte – Giovanni Bonzio- “Gibo”. E scusate se è poco, visto che a nessun altro giornalista veneziano ( nemmeno al fondatore del Gazzettino, Gianpietro Talamini ), è stato riservato questo onore.
Gibo il principe dei cronisti

Giovanni Bonzio ( Venezia, 1930/1981 ), conosciuto da tutti come “Gibo” per come siglava i suoi articoli sul Gazzettino era il principe indiscusso dei cronisti veneziani. Un tipo particolare, capace di perdere le nottate per controllare una notizia da due colonne in taglio basso, apparentemente di poca importanza, ma capace di fare infuriare mastini come Arnaldo La Barbera, futuro questore di Palermo, prefetto di Roma e vicecapo della polizia.
Chi era Gibo

Eterna sigaretta in mano, occhiali spessi da miope, deciso sul lavoro e timido nella vita privata, feroce negli scherzi coi colleghi, sarebbe piaciuto sicuramente a Balzac, perché la sua storia umana e professionale è unica. Nipote e figlio di un giornalista, fratello minore di un altro giornalista, Giuseppe, padre a sua volta di due giornalisti, Gianpaolo e Roberto, era come si dice un predestinato, perché proprio in casa sua già negli anni Trenta nascevano le prime pagine della cronaca di Mestre. La decisione di aprire una redazione in terraferma era venuta dopo l’inaugurazione del Ponte della Libertà che allora si chiamava Littorio. Fu così che la famiglia Bonzio originaria di Cannaregio si trasferì oltre il ponte, Da 100 anni i Bonzio fanno parte della storia redazionale del Gazzettino.
Aveva respirato così fin da bambino l’atmosfera della redazione: l’ansia dei tempi da rispettare, il controllo certosino di ogni dato, la cura scrupolosa delle fonti, che costituiscono l’unico vero tesoro del giornalista. Naturale, perciò, che nel suo dna l’etica della notizia da conquistare a tutti i costi e da pubblicare senza guardare in faccia a nessuno avesse un posto d’onore.
Gavetta e carriera

Perso il padre a undici anni, a tredici, in piena guerra, diventa “operativo” sotto la guida del fratello. Fa di tutto. Risponde al telefono; si occupa dei fuori-sacco ( i bustoni con gli articoli e le fotografie per il giornale dell’indomani ) che porta in stazione in bicicletta; impara come si conquista una foto; comincia a conoscere di persona appuntati e marescialli; si cimenta con la scrittura delle prime notizie: poche righe, ma con soggetto, verbo e complemento che devono finire sempre al posto giusto. Non è un apprendistato facile. Come sempre, soldi pochissimi, fatica tanta, niente vacanze, ma un entusiasmo straripante. E in più una certezza che solo i cronisti di razza hanno: due più due nella vita reale fanno raramente quattro. La grande abilità del reporter è scoprire come può finire il conto e presentarlo ai lettori, che sono giudici infallibili.
Quando nasce il mito di Gibo

Il mito di Giovanni Bonzio, quello che lo ha reso caro ai lettori veneziani, nasce da qui e crescerà negli anni Sessanta e Settanta insieme alla sua città, dove “Gibo”, senza volerlo, diventerà uno dei personaggi più importanti della comunità mestrina: un punto di riferimento preciso nella vita di ogni giorno. La gente, come adesso si usa dire, sa di potersi fidare, gli racconta tutto e l’elenco delle sue fonti “fiduciarie” riempie intere pagine della guida telefonica. Lui ricambia con una discrezione ed una dedizione assoluta, che va molto al di là del semplice dovere.
Lo testimonia con i suoi articoli sugli incidenti al Petrolchimico, l’intervista al bandito Luigi Niero, il crac Marzollo, il mistero di Argo 16, l’aereo militare precipitato sul cielo di Marghera, i servizi sulle Brigate Rosse che insanguinano Mestre. Tutte esperienze professionali preziose, poi sintetizzate in un volume “Scusate se sono un timido”, curato dai figli ed edito dalla Marsilio, che vale la pena di rileggere.
Gibo non solo giornalista

Non c’è, comunque, evento di rilievo di quegli anni tormentati, grande o piccolo, che non lo veda presente. Insieme agli altri due “assi” della cronaca di Mestre, Mario Rapisardi e Tino Corradini, forma un trio imbattibile, dove lui è l’apripista: arriva sempre per primo e nessuno riesce a scoprire come fa. Ma, quando il 24 luglio del 1975 due rapinatori siciliani, pistole alla mano, prendono in ostaggio dodici persone in un bar di Marghera, allora dimostra fino in fondo di che pasta è fatto.

Mani in alto, mentre polizia e carabinieri circondano la zona, entra dentro e propone ai banditi, sempre più nervosi, uno scambio: lui al posto di una donna incinta, che piange e trema di paura. Finirà con qualche colpo di pistola e una vetrata scheggiata, ma ne valeva la pena, perchè colpiti dal suo coraggio i sequestratori faranno le prime concessioni e vorranno da quel momento solo lui come interlocutore. Un gesto d’altruismo che gli meriterà il ringraziamento di una città intera.
Sei anni dopo, all’improvviso, “Gibo” si ammala

E’ una cosa seria, ma lui non si lamenta con nessuno e chi lo va a trovare rimane ancora una volta stupito per l’amore, che anche in un momento simile, porta al giornale. Con il suo Gazzettino spalancato davanti, con i segni crudeli del male dipinti sul volto ed un filo di voce, parla solo di notizie da approfondire, di inchieste che non possono più aspettare. Niente, nemmeno una parola sulla belva che lo sta divorando: contano soltanto il lavoro, la notizia, i lettori. Ed è stato questo il suo testamento civile, simbolo di un attaccamento totale alla professione, di cui dovrebbero far tesoro tutti i giovani, spaesati, cronisti di oggi.
Ciao amico mio

“Gibo”, come sarà sempre ricordato, muore ad appena cinquantun anni, il primo dicembre del 1981. Al suo funerale c’è un futuro ministro della Repubblica, Costante Degan, il direttore del Gazzettino, Gianni Crovato, coi suoi giornalisti, i vertici di polizia e carabinieri al completo. Ma soprattutto, come sarebbe piaciuto a lui, tanta, tantissima gente che in chiesa non riuscirà nemmeno ad entrare. E che alla fine riuscirà a trovare posto soltanto sul sagrato.