Si à avuto modo di affrontare la decisione della Seconda Camera preliminare della Corte penale internazionale (CPI) relativo al mandato d’arresto nei confronti del presidente russo Vladimir Putin e Maria Alekseyevna Lvova-Belova, commissario per i diritti del fanciullo della Federazione russa, per i crimini di guerra, in particolare sulla deportazione di bambini ucraini verso la Russia. Per continuare il discorso, credo che sia doveroso porre dei punti chiari sulla questione se gli Stati che hanno ratificato lo Statuto di Roma siano tenuti, in maniera vincolante, ad arrestare i due soggetti citati, sulle cui teste pendono i crimini avvenuti nel conflitto russo-ucraino, a seguito della richiesta di cooperazione dell’organo politico giudiziario penale internazionale e se effettivamente compaiano sul proprio territorio, e quale ruolo riveste l’istituto dell’immunità di cui gode Putin come attuale capo di uno Stato sovrano e indipendente.
Le difficoltà per arrestare

Nello Statuto di Roma viene enunciato che «la Corte non può presentare una richiesta di assistenza che costringerebbe lo Stato richiesto ad agire in modo incompatibile con gli obblighi che gli incombono secondo il diritto internazionale in materia d’immunità degli Stati o di immunità diplomatica di una persona o di beni di uno Stato terzo, a meno di ottenere preliminarmente la cooperazione di tale Stato terzo in vista dell’abolizione dell’immunità». Sembra che l’immunità di Putin, rappresentante di uno Stato che non è parte alla Corte penale internazionale, possa ostacolare i giudici ad appellarsi alla cooperazione di uno specifico Stato parte, qualora la Federazione russa non rinunci a tale immunità. Anche se la stessa Corte dell’Aia si è espressa con un parere diverso.
L’esempio di Al-Bashir che non si poteva arrestare

Si può prendere come esempio il caso di Al-Bashir, per il quale le Camere preliminari e la Camera d’appello hanno in maniera congiunta emesso otto decisioni nelle quali veniva delineato che determinati Stati parte avevano violato i loro vincoli al rispetto delle norme statutarie dell’organo giudiziario penale internazionale, attraverso il rifiuto di procedere all’arresto e alla consegna del presidente sudanese Al-Bashir. In parole povere, i percorsi esplorati potrebbero essere divisi tra quello che prescrive l’Onu e quello che indicano i giudici d’appello e, non solo, c’è da tenere conto dello jus cogens. Si tratta del diritto internazionale cogente che potrebbe essere diversificato in due criteri a seconda che si tratti dell’immunità verticale o di quella orizzontale.
Arrestare Putin? Non è così facile

L’approccio sull’immunità verticale è stato adottato nella questione Procuratore c. Omar Hassan Ahmad Al Bashir in cui i giudici della prima Camera preliminare della Corte penale internazionale hanno asserito che «il diritto internazionale cogente comporta un’eccezione all’immunità del capo di Stato nel momento in cui gli organi giudiziari internazionali chiedono l’arresto di un capo di Stato responsabile di aver commesso i crimini internazionali». Si ammette, cioè, che le disposizioni classiche relative alla prassi immunitaria cogente si estendono al rapporto verticale fra gli Stati e i tribunali internazionali. Ma i giudici della Corte internazionale di giustizia, nella ben nota sentenza sul mandato d’arresto, precisano che l’immunità della giurisdizione penale e la responsabilità penale del singolo soggetto sono espressioni del tutto separate e, poiché l’immunità giurisdizionale possa inibire l’azione penale per un lasso di tempo determinato, non può esonerare l’individuo da ogni responsabilità di tipo penale.
Il risultato di tutto, ai sensi dello Statuto di Roma, è che «le immunità o le regole di procedura speciali eventualmente inerenti alla qualifica ufficiale di una persona in forza del diritto interno o del diritto internazionale non impediscono alla Corte di esercitare la propria giurisdizione nei confronti di tale persona». A questo punto ci si può domandare se le pertinenti norme del trattato possano essere sufficienti per dare forma ad una norma di jus cogens. In proposito i giudici della Corte internazionale di giustizia, nella sentenza North Sea Continental Shelf, hanno evidenziato che la mera esistenza di trattati non potrebbe automaticamente fare in modo che delle norme diventino norme cogenti.
Il caso Jordan Appeal

Sempre stando sul tema dell’immunità verticale, i giudici della Camera d’Appello dell’organo giudiziario penale internazionale, nel caso Jordan Appeal di qualche anno fa, hanno posto in risalto che le istituzioni giudiziarie internazionali si muovono agendo per conto della società internazionale, per cui il principio par in parem non habet imperium, secondo cui un potere sovrano non può esercitare giurisdizione su un altro potere sovrano, non trova applicazione in relazione a un tribunale internazionale come la Corte penale internazionale. In poche parole, i giudici, anziché affermare che i tribunali internazionali rappresentano un’eccezione all’immunità classica, sostengono che sin dall’inizio non esiste tale immunità verticale degli organi statali nei riguardi dei tribunali internazionali. Niente, insomma, può impedire alla Corte di esercitare la propria giurisdizione.
Anche questo approccio è controverso. Nel senso che si considera di solito che i tribunali internazionali costituiscano un’ultima istanza delegati dagli Stati. Anche se vi è qualche punto di vista differente che vede piuttosto tali tribunali di genere penale internazionale agire per conto della comunità internazionale. E, dunque, incaricati di attuare il cosiddetto ius puniendi ovvero il diritto di applicare la sanzione.
Le difficoltà in determinati paesi

L’osservazione della Camera d’appello si discostava da determinate decisioni precedenti della Camera preliminare dell’organo giudiziario penale internazionale. A titolo di esempio, nel caso relativo al Congo, i giudici della II Camera preliminare hanno ritenuto che l’articolo 27, paragrafo 2, che riguarda l’irrilevanza di qualifiche ufficiali, dello Statuto di Roma possa applicarsi solo agli Stati che hanno ratificato tale Statuto. E che, pertanto, non costituisce norma rientrante nella sfera dello jus cogens. Come pure, nei casi relativi alla Giordania e al Sudafrica, la seconda Camera preliminare ha posto in risalto della sua incapacità di individuare una norma nello jus cogens che possa escludere l’immunità dei capi di Stato. Nel momento in cui venga richiesto il fermo dall’organo giudiziario penale internazionale.
Arrestare un capo di Stato? Quasi impossibile

Dopo aver rimosso l’immunità verticale, i membri della Corte Penale Internazionale hanno proseguito ad esaminare il tema dell’immunità orizzontale. Ovvero circa l’immunità del capo di uno Stato non parte della Corte dalla richiesta dell’arresto degli Stati che sono parti sempre all’organo penale giudiziario internazionale. A tal proposito, entrambi gli approcci hanno sullo stesso piano delineato che, in base alla richiesta dei giudici della CPI, gli Stati che hanno ratificato lo statuto, divenendone parti, sono dei semplici catalizzatori giurisdizionali della giurisdizionale penale internazionale. Anziché esercitare la propria giurisdizione penale domestica. Vuol dire che nessuna immunità in senso orizzontale può essere messa in atto in questo caso. Nel senso che si limita a prestare assistenza all’organo giudiziario penale internazionale nell’esercizio della propria giurisdizione.