Ho conosciuto Michela Murgia nel 2006 quando era una giovane sconosciuta, aveva insegnato religione nelle scuole e poi aveva fatto l’operatrice in un call-center. Proprio a questa esperienza aveva dedicato il suo primo libro “Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria” (Isbn Edizioni). C’erano in quelle pagine i trentenni di allora, i lavori precari, quei “lavori disperati che ti vergogni a dire agli amici”. Una generazione che non aveva più niente a che vedere con quell’Italia disorientata e a tratti perfino grottesca che si era suicidata con Tangentopoli. La Murgia mise in un libro la sua generazione destinata a fallire, se non avesse trovato l’autoironia per salvarsi e la voglia di provare a costruire un Paese nuovo; e se non fosse stata disposta a gettare a mare i padri che lo avevano impaurito e impoverito. Era anche una denuncia precisa dello sfruttamento economico e della manipolazione psicologica da parte di una multinazionale del settore.
L’incontro con Michela alla Lovat


A farci incontrare è stata Carlotta Borghi, l’anima della Libreria Lovat, una che prende sotto tutela gli autori giovani e raramente sbaglia il pronostico. Mi disse che dovevo per forza presentare Michela, che era brava e che era anche sarda come me. Nata a Cabras sugli stagni che una volta erano dei “baroni” e che sono stati riscattati dai pescatori negli anni ’60 con una rivolta. Il giudice che diede ragione ai pescatori era della famiglia di uno di quei baroni. Anche quella era l’Italia.
La sera in un cinema di paese, con le sedie in legno e un sipario di colore ormai indefinibile, accompagnata da Carlotta si presentò questa ragazza bruna, gli occhi grandi, esuberante nel fisico e nel dialogo, attenta all’uso delle parole ma anche a suscitare se non la risata almeno il sorriso. Conquistò la platea, fece pensare e ridere, fece intuire che non si sarebbe fermata a quel primo romanzo, che aveva voglia di dire cose nuove, che aveva il talento per far strada. La presentai convinto che quel libro di una piccola casa editrice avrebbe avuto successo. Mi ringraziò soprattutto perché “mi hai comprato a scatola chiusa”.
L’esplosione di Michela
Il libro la fece conoscere, il regista Paolo Virzì ne trasse il film “Tutta la vita davanti” con Sabrina Ferilli e Valerio Mastrandrea. Quattro anni dopo la Murgia vinse il Premio Campiello 2010 col suo romanzo “Accabadora” edito dall’Einaudi. La ritrovai per una presentazione dei finalisti, aveva acquisito autorevolezza come scrittrice, era diventata famosa, ma era rimasta la Michela di una volta, arrabbiata sui principi, pronta a ridere sui difetti. Il libro era bello seppure legato a un’immagine di una Sardegna che a me sembrava più fantastica e leggendaria che reale; quell’isola non c’era più da tanto tempo. Le dissi che sarebbe stato il secondo sardo, dopo Niffoi, a vincere il premio Campiello. Aveva troppa fede per essere superstiziosa e rispose con un sorriso dei suoi. I quarant’anni avevano addomesticato il suo fisico, arrotondandolo nella maturità, assieme al modo di ridere.


Ormai era una protagonista della cultura italiana. Scrittrice, drammaturga, blogger, critica, opinionista. Una che quando presentava un libro ti faceva venire la voglia di comprarlo, magari per dire che non eri d’accordo. Convintamente femminista ma nel senso della parità assoluta non della prevaricazione, schierata in prima linea per tutti quelli che non hanno voce per farsi ascoltare nel chiedere pane, assistenza sanitaria, dignità, libertà, riconoscimento dei diritti. Politicamente scomoda per tanti, col suo antifascismo convinto, ma sempre senza rinunciare alla capacità di essere ironica e autoironica. In prima fila nelle questioni più delicate, pronta a sostenere ogni confronto, a non abbandonare mai la scena, a rispondere con pacatezza perfino agli attacchi meno educati. Lei profondamente cattolica sosteneva la forza dei legami affettivi, più solidi spesso di quelli imposti dal sangue e dalla legge. Ha attraversato un tempo in cui gridare le proprio idee non sempre è stato facile e comodo. Ne ha pagato non poche volte le conseguenze.
Non sempre ho condiviso le sue posizioni, ma ammiravo il coraggio con le quali le sosteneva


Un rispetto che le ha meritato l’onore delle armi anche di chi non l’amava. E’ vero, aveva scritto che le sarebbe piaciuto morire quando la Meloni non fosse stata al governo. Però sapeva che il cancro le dava tempo giusto per un saluto non per aspettare la fine di una legislatura. Era un suo modo di essere coraggiosa. E la Meloni sapeva che l’altra era un’avversaria leale nella sincerità, come pochissimi.
Gli ultimi tempi, dilaniati e scanditi dalla malattia, sono stati inesorabili, difficili, disperati e quasi felici assieme. Si è confessata nella paura e nel dolore, ha insegnato a vivere e ha dato lezione di come si può morire coscientemente e con dignità.
Il mondo doveva sapere. Sapere come è bello vivere, anche come è bello poter salutare tutto quello che si è amato.
Bellissimo questo editoriale!
Aspettavo un ricordo di Michela Murgia. Ed eccolo. Scritto dalla straordinaria penna di Edoardo Pittalis. Dovrei dire testimonianza, la parola ricordo per Michela Murgia non è adeguata. È una presenza, forse ancora di più oggi dopo la sua scelta per salutarci. Eredità che deve diventare futuro. Grazie Edoardo Pittalis per questa emozionante lettura
Grazie, Edoardo, per questo ricordo che la dipinge a tutto tondo e che non scade, ma tu non lo fai mai, nell’agiografia come è successo a molti. Mi hai emozionato e commosso.