Scavallato sul calendario il decennio maledetto’40-’49, murati gli ingressi del rifugio di cemento armato che minaccioso sorgeva all’imbocco di Campomarte, alla Giudecca, i vivi hanno riscoperto la voglia di vivere. Hanno rioccupato le strade a tutte le ore del giorno e della notte, hanno dato voce a bisogni e desideri a lungo sopiti, e i giovani hanno scoperto di volersi divertire apparendo più nuovi e più belli. Non ci si poteva avvicinare ai negozi di vestiti delle Mercerie e neanche a quelli meno costosi di Rialto. E nemmeno si potevano rivoltare giacche e cappotti, già fatto, anche due volte. La lana era più abbordabile. Una maglietta nuova, un completino (maglietta e giacchettina) un girocollo sportivo. Insomma qualcosa che, con una gonna non troppo usata, potesse fare la sua figura in sala la domenica pomeriggio. Intendo in sala da ballo, perché il ballo era scoppiato come un’epidemia in tutto il paese. Ogni spazio era buono, pubblico o privato. Le ex sedi del fascio o di altre associazioni para-fasciste requisite si trasformavano in un lampo in sale per ballare con tanto di orchestrina.
Pur di ballare
Mio padre (batterista autodidatta) i pomeriggi del sabato e della domenica partiva con la sua orchestrina, bardato di batteria (autocostruita) in duralluminio completa di tamburi, zucche, piatti, pedale e charleston, e planava in qualcuna di queste sale dove arrotondava la quindicina talvolta arrivando anche a mille lire a prestazione.
Gli andava di lusso quando lo chiamavano a suonare alla Giudecca, all’ex sede del fascio divenuta magicamente sezione del P.C.I con un salone molto ampio adibito a luogo per assemblee, feste, balli.
Dieci lire di mancia
Dal ’54 al ’56 le domeniche mattina mie e di mio fratello erano consacrate, oltre che alla messa delle nove per prendere il biglietto che ci assicurava lo sconto di venti lire sull’ingresso al cinema parrocchiale del pomeriggio, alla consegna delle maglie casa per casa. Zia Battistina, sorella di mio padre dall’ animo scatenato di imprenditrice, ha colto il fermento e ha messo su un laboratorio casalingo di maglieria con un paio di macchine (quelle che andavano su e giù con il filo di lana) e due o tre ragazze che “confezionavano”. Ogni tanto, a causa del tanto lavoro, andava ad aiutare anche mia madre, ma non era molto contenta. Il sabato pomeriggio ed in particolare la domenica erano i giorni della consegna a domicilio dei prodotti finiti, stirati e incartati che mio fratello ed io portavamo a destinazione. Non vi dico le attese spasimanti di quelle povere ragazze che al primo battito di porta (in genere non esistevano i campanelli) balzavano sul pacchetto e lo aprivano con occhi luccicanti. Ecco quello era il momento in cui io capivo se la mancia arrivava o no. E se non arrivava, arrivavano le “benedizioni” che per fortuna mia zia non sentiva. Delle volte erano contente della maglia o della giacca, ma poi brontolavano del biglietto che le accompagnava. Non so cosa ci scriveva mia zia, fatto sta che alcune brontolavano e ci davano dieci lire di mancia, ma con fatica. Comunque alla fine del giro ci dividevamo qualche decina di lire che per quei tempi !
Quando il miracolo era economico
Nel 1944, l’anno in cui io sono nato, l’inflazione arrivò intorno al 345%. Una cifra ad oggi impensabile. L’anno successivo, finita la guerra, scese fino ad arrivare al 97%, con una svalutazione della lira spaventosa e, di conseguenza, una riduzione del potere di acquisto dei salari e disoccupazione di massa. Il primo decennio post- liberazione fu duro, ma vide una relativa ripresa delle attività sociali e culturali, un faticoso, ma progressivo rilancio della attività industriali che interessò particolarmente, se non esclusivamente. il nord-ovest del paese, mettendo in moto un processo migratorio interno che progressivamente portò soprattutto in Piemonte, in Lombardia e a Genova migliaia di meridionali che si trasferirono con le loro famiglie lasciando nelle città e nei paesi soprattutto gli anziani. Ma anche nel nord si svuotarono città come Mantova e Cremona e intere aree agricole come il Polesine. Le città oggi hanno recuperato i loro abitanti, la provincia di Rovigo no. In quegli anni tutto il Veneto era ancora terra di emigrazione. I nostri emigranti hanno portato dal sud al nord la loro cultura, talvolta di difficile condivisione, le loro canzoni. I nostri emigranti hanno portato dal Veneto nel mondo la nostra cultura, talvolta la nostra lingua e le nostre canzoni che in alcuni paesi sono ancora vive. In questo sono stati aiutati dalla loro capacità di fondersi con altre culture ed altri canti dando vita così a quel processo di integrazione che significa restare se stessi contribuendo a promuovere con altri una nuova avventura umana.
Anche la musica pop ha ricordato il difficile periodo delle “Marie” che arrivavano dal sud con valige di cartone e trovavano diffidenza e spesso razzismo ad accoglierle. Una canzone di un autore e cantante tra i più significativi e attenti a questo genere di problemi: Sergio Endrigo. La canzone è “Il treno che viene dal sud”.
L’elogio del magnetofono
Quegli anni, dal dopoguerra al 1960 hanno gettato le basi dell’Italia in cui viviamo e della crescita culturale che abbiamo vissuto. In particolare la materia di cui ci occupiamo in queste pagine, cioè la canzone prevalentemente dal punto di vista della sua valenza sociale, si è trovata di fronte ad un impulso davvero impensabile. Mi riferisco a tutto il mondo della canzone, ma soprattutto a quel settore di cui mi occupo con particolare interesse, quello che, per comodità, abbiamo definito il folk. Mi raccomando: musica folk, non folklore, che nel nostro paese ha assunto un connotato svalutativo.
Di ciò continueremo a scrivere nel prossimo incontro, partendo da una semplice quanto fondamentale osservazione che Gianni Bosio (amministratore delegato delle edizioni del Gallo e di tutte le attività del gruppo ad esse connesso) che si definiva “organizzatore di cultura”, inserì in apertura del suo scritto “Elogio del magnetofono.1970”
in Gianni Bosio “L’intellettuale rovesciato” Edizioni Bella ciao 1975 Milano.
“Come l’avvento della stampa ha segnato il passaggio dal Comune alla Signoria, dalla cultura indivisa, prevalentemente affidata ai mezzi di comunicazione orale alla cultura come espressione della classe dominante, così il magnetofono restituisce alla cultura affidata ai mezzi di comunicazione orale lo strumento per emergere, per prendere coscienza e quindi appunto per disgrovigliare tutte le forme che si possono contrapporre, ma non appaiare, alle forme disciplinari e ai generi della cultura dominante.
Vi lascio all’ascolto di una canzone di Fausto Amodei, un autore che incontreremo spesso e che ci ha dato canti che hanno fatto da contrappunto alla nostra storia fino ad oggi. E non è detto che non lo farà ancora.
Questo brano dal titolo “Qualcosa da aspettare” è la storia di infinite domeniche trascorse da molti di noi tra panini e tartine, coca cola e aranciata, valigetta giradischi 45 giri e testa persa.
Il cambiamento
Alla fine della Seconda guerra mondiale, tra il 1945 e il 1952, circa 70mila bambini tra i sei e i dodici anni, figli di un Sud sofferente e affamato, vennero accolti da famiglie del Nord Italia per sfuggire alla miseria e immaginare un futuro migliore. Provenivano da famiglie povere di Roma, Cassino e Napoli, della Ciociaria e della Puglia e partirono per raggiungere una cinquantina di comuni scelti, soprattutto in Emilia Romagna. Salirono sui cosiddetti “treni della felicità” per raggiungere altre famiglie, che li fecero crescere come figli, mandandoli a scuola, per tutto il tempo necessario.
L’iniziativa fu promossa dalle donne dell’Unione Donne Italiane e dl PCI