E abbiamo anche la grande Transizione carnevalesca: dalle mascherine alle Maschere, dalle pezzuole coprifaccia alle persone interamente vestite di fantasia. Il Carnevale di Venezia mi porta il ricordo dell’amico Fulvio Roiter, grande cacciatore di immagini che non perdeva mai un Carnevale, e ogni anno, in quella ministagione di febbrile passione per il travestimento in pubblico, si metteva ogni giorno all’agguato di figure fantastiche, a volte inverosimili e grottesche, andando all’usta dalle calli ombrose alla luce della Piazza o delle Zattere. Nel Carnevale programmato e in quello spontaneo dei bambini nella città più bella, questo spettacolo così bizzarro ed eccitante oggi rivive anche come vaccino psicologico contro la pandemia, i suoi disastri e le sue paure.
Le “siore mascare” sono creazioni sartoriali, artistiche, sono costumi inventati per una Grande Recita: il Carnevale lagunare è infatti teatralità pura (Scaparro ancora docet) e le scenografiche Maschere a caccia di selfie e di premi recitano a soggetto, si donano al culto dei fan, consapevoli che il loro fascino conquista lo scafato cittadino come i “foresti” di tutto il mondo.
Queste figure fiabesche sono belle, anzi bellissime creazioni, eppure molte di loro trasmettono una certa inquietudine: come divinità cacciate dalla loro dimensione onirica, vivono qui di vita riflessa, nutrite dall’appassionata e un po’ folle ammirazione dei non-mascherati. E quando il giorno e la città si chiudono, le vedi andare con passo reticente nel crepuscolo, assorbite dal labirinto che chiamiamo Venezia. Le possiamo ritrovare nei libri di Roiter che credeva nella bellezza carnevalesca e ha saputo coglierla con immagini stregate.
E vennero le grandi nebbie
Dopo anni in cui avevano rallentato le loro apparizioni abbiamo rivisto le nebbie tornare con frequenza e spessore grazie all’evoluzione climatica. Non è più tempo del periodico annuncio radiofonico “Nebbie in Valpadana”, oggi il fenomeno “cancellatore di paesaggi” è diventato nazionale e qui a nordest è ritenuto degno di notizia e commento sui giornali quotidiani, addirittura con slanci letterari.
Nel bello e nel brutto (fascino e pericolo delle notti sulle strade), le nebbie autunno-invernali-primaverili sono state e sono per molti italo-padani presenze quotidiane fin dall’infanzia, specie per chi vive in paesi circondati dalla campagna. E sono oggi una dura esperienza per gli immigrati provenienti dalle aree equatoriali del pianeta: il gelo e la nebbia, il disorientamento, la luce che langue, uno choc.
Le nostre grigie visitatrici stagionali sono pura magia a Venezia dove questo invasivo fenomeno meteorologico diventa spettacolo: velo magico che protegge e occulta, trappola per lo sguardo, lente che trasfigura il vivente fisico in sogno. Perché la nebbia cambia la realtà visibile, la deforma, la rende sfocata mentre crea una diversa dimensione spazio-temporale che ti imprigiona in una specie di utero virtuale o, volendo far poesia, ti fa sentire come un insetto imprigionato nell’ambra. O come il profeta Giona nel ventre della balena… Dice il saggio: “Attenzione, ci sono nebbie pericolose anche lontano dal traffico: e spesso oscurano le nostre coscienze…!”
Miserie, non peccati
C’è una realtà diffusa, purtroppo, chiamata miseria, cioè qualcosa che è una povertà al quadrato: questa condizione si vede, affiora nelle cronache, la incontriamo per la strada: penosi quadri di un terrestre Purgatorio. Ma che dire, allora, delle miserie? Il plurale cambia il significato proprio del singolare. Le “umane miserie”, “queste miserie del tempo in cui viviamo” cosa sono? Sono angustie, difetti di carattere, povertà di pensiero, situazioni che generano paura e avvilimento: sono debolezze che ci teniamo addosso come fossero peccati inconfessabili, ma non lo sono. C’è una parola che le contiene tutte: difficoltà. Che ci sono sempre, “piccole o grandi, aperte o segrete” come ha scritto Giorgio Scerbanenco, sì proprio l’autore di Venere privata, in un libro postumo e molto bello: Il mestiere di uomo (Aragno editore 2005). Esule in Svizzera durante la seconda Guerra mondiale, il popolare scrittore di noir raccoglieva i suoi pensieri. Come questo: “Se è vero che tutto si risolve, almeno col passare del tempo, è pur vero che spesso una difficoltà si risolve nel trasformarsi in un’altra difficoltà. Un dolore in un altro”… Un autore che forse si dovrebbe rileggere. Intanto, rispondiamo alla domanda: Vivere è paragonabile a un mestiere?
Salmo
(poesia)
O come sono permeabili le frontiere umane!
Quante nuvole vi scorrono sopra impunemente,
quanta sabbia del deserto passa da un paese all’altro,
quanti ciottoli di montagna rotolano su terre altrui
con provocanti saltelli!
Devo menzionare qui tutti gli uccelli che trasvolano
o che si posano sulla sbarra abbassata?
Foss’anche un passero – la sua coda è già all’estero,
benché il becco sia ancora in patria. E per giunta quanto si agita!
Tra gli innumerevoli insetti mi limiterò alla formica,
che tra la scarpa sinistra e la destra del doganiere
non si sente tenuta a rispondere alle domande.
Oh, afferrare con un solo sguardo tutta questa confusione
su tutti i continenti!
………………………………………………………..……
Come si può parlare d’un qualche ordine,
se non è nemmeno possibile scostare le stelle
e sapere per chi brilla ciascuna?
E poi questo riprovevole diffondersi della nebbia!
La polvere che si posa su tutta la steppa,
come se non fosse affatto divisa a metà!
E il risuonare delle voci sulle servizievoli onde dell’aria:
quei pigolii seducenti e gorgoglii allusivi!
Solo ciò che è umano può essere davvero straniero.
Il resto è bosco misto, lavorio di talpa e vento.
Wislawa Szymborska (premio Nobel)
da La gioia di scrivere, Adelphi 2009