Un legame tanto forte che non si scioglierà mai. Certo, per secoli e per i più è stato così, per molti con soddisfazione, ma per molti, e soprattutto per molte le catenelle son diventate di piombo ed hanno non legato, ma imprigionato delle vite. Anche questo è racconto popolare.
Una storia da raccontare
Nel libro “Canti pel popolo veneziano” di Iacopo Vincenzo Foscarini edito dalla tipografia Gaspari di Venezia nel 1844 a pag. 297 leggo questa istruttiva vilota, di cui naturalmente non si conosce la musica, qualora sia mai stata prodotta :
No pianzar Marcantonio a Famagosta,
Ché lu oramai xe fuora da ogni briga;
Piansi par mi pitosto, che me costa
Tanto el to viver co la mia fadiga;
Pianzi per mi, perché ti, mata o savia,
a le mie spale ti xe sempre gravia
Prima di addentrarci nel problema posto dal gentiluomo creatore di tanta poesia, due parole per ricordare la vicenda terribile cui si riferisce il primo verso.
Siamo negli anni 1570/71 nell’isola di Cipro, possedimento veneziano, dove Famagosta, la capitale, è assediata da una flotta turca forte di 150 imbarcazioni, 1500 cannoni e 200.000 armati. A difenderla 6.000 uomini della guarnigione veneta guidati dal provveditore Marcantonio Bragadin. La città era ben difesa dalle mura fatte ricostruire dal Bragadin e la misera guarnigione resistette per tutto il mese di luglio. Poi, a fronte della carenza di cibo e di sostegno dall’esterno, Bragadin si vide costretto alla resa con la promessa che i militari superstiti potessero ritirarsi a Candia.
La promessa non fu mantenuta, i capi militari furono tutti trucidati e Marcantonio Bragadin, dopo essere stato torturato, fu legato ad una colonna della pubblica piazza e scuoiato vivo in modo che la pelle rimanesse tutta intera.

L’eroico comandante morì a metà dell’operazione senza emettere un solo lamento. Alla fine della tortura la pelle riempita di paglia e rivestita di corazza e armi fu issata su un bue e fatta girare per le vie di Famagosta tra lo scherno degli occupanti.
Tutto ciò colpì molto e indignò non solo l’immaginazione popolare, come testimoniano questi versi, ma anche il mondo cristiano e accelerò la predisposizione dell’enorme flotta occidentale per la battaglia di Lepanto.
Torniamo ai nostri due sposi
La risposta della moglie, in versi pure questa, non si fa attendere.
“Eh stralassa de far el Baramonte,
Col viver mal co i to compagni in fragia;
Chè sempre ben no ti passarà el ponte,
E ti finirà i zorni da canagia;
E lassa che mi pianza, che son savia,
Perché de un fio de i to pecai son gravia”
Ecco un altro personaggio degno di nota, per ben altri motivi però. Trattasi del nobile veneziano Bajamonte Tiepolo, eroe per taluni, a lungo ricercato in quanto fuggiasco e potenziale condannato a morte per la repubblica.

Fu coinvolto in tumulti e congiure per rovesciare un Doge inviso alla Venezia popolare, e per questo ebbe seguito tra i ceti bassi, ma contemporaneamente fu dapprima esiliato e poi ricercato per la sua incessante opera critica verso il potere aristocratico. In questa vilota la voce popolare di questa donna dà una lettura negativa del personaggio sottolineando la fase, per altro lunga, della sua vita in cui visse “in fragia” o “de bando” come si dice in un dialetto più recente, cioè sempre in giro senza meta.
Dalla lettura di queste due vilote apprendiamo due cose
La prima è che il popolo, se popolare è stata la penna che le ha scritte o la voce che le ha dettate, era tutt’altro che disattento alle vicende della politica e si lasciava coinvolgere dai problemi della gestione della città, benché avesse scarsa possibilità di intervenire sulle decisioni.
La seconda, più inerente al tema del nostro lavoro, è che a livello popolare il figlio, il più delle volte i figli collocati tra i primi obiettivi del progetto maritale possono dimostrarsi, specialmente per la donna, uno dei più forti impedimenti all’auto-realizzazione, alla conquista di un’area di confort personale che l’assillo materno le aveva a lungo compresso. E’ proprio nell’intimo della casa, dal canto materno per eccellenza, dalla voce calda e melodiosa che induce al sonno e talvolta, in tempi e luoghi diversi emerge la consapevolezza di ciò che è costato e ancora costa in molti casi essere donna e madre.
Quella che avete appena ascoltato, e spero proprio che l’abbiate fatto, è un’antica ninna nanna raccolta a Pellestrina da Alan Lomax nel 1955 nella sua più volte citata campagna di ricerca in tutto il nostro paese. Chi canta è presumibilmente una nonna (in questo caso raro un nonno) che descrive dolcemente un quadro di vita quotidiana. E’ abbastanza frequente trovare testi del genere nelle ninne nanne lagunari che sembrano ricomporre in casa, e nel bambino, la dolcezza e la pace della laguna, quando è in pace. Ho avuto modo di sentire questa registrazione nella sua edizione originale e poi in altre edizioni. Tra tutte le riedizioni questa è quella che mi ha colpito di più, e vengo a chiarirne la ragione.

Se l’ascoltate con una discreta attenzione vi potrete accorgere che c’è un certo scollamento tra l’evoluzione del canto e l’armonizzazione, cioè la successione di accordi eseguiti dai violini e dagli altri strumenti. Non sono “stonature” ovviamente, ma le definirei “sfasature”, come due persone che parlano della stessa cosa ma con retro-pensieri differenti che in qualche modo si avvertono. Il fatto è che la linea armonica barcolla tra la modalità maggiore e quella minore creando degli slittamenti modali che donano al brano una sinuosità alla nostra canzone popolare d’oggi piuttosto desueta.

Ma Endrigo non si arrende all’impianto rigorosamente tonale dell’accompagnamento e riproduce una interpretazione della linea melodica che possiamo definire si propone come un vero e proprio ricalco del documento di riferimento. Ne esce un prodotto del tutto discutibile sul piano della coerenza musicale e stilistica, ma estremamente significativo per verificare la diversità di impianto tra versione tonale e versione modale. Quanti altri si sarebbero cimentati in una simile impresa e non avrebbero invece intonato per bene i modi?
Questa ninna nanna viene dalla Toscana, ma da una Toscana di tanti anni fa. E’ raro che possiamo datare un canto popolare con tanta precisione, o meglio che ci possiamo andare così vicini con una rassicurante certezza. La straordinaria ricercatrice e cantante popolare Caterina Bueno, che abbiamo incontrato già altre volte (nella foto accompagnata alla chitarra da un giovanissimo Francesco De Gregori nel 1971), ha raccolto questa ninna nanna nel 1965 nella campagna tra Barberino Val D’Elsa e San Giminiano da un’anziana signora di nome Pia Calamai.

La peculiarità
La peculiarità di questo canto è che deriva con molta probabilità da una ballata nata per ricordare una guerra tra Barberino e San Gimignano scoppiata, secondo le cronache, nell’estate del 1114. I barberinesi sarebbero entrati in San Giminiano bruciando e abbattendo alcune delle torri per le quali la città è ancor oggi famosa nel mondo. II conflitto continuò con fasi alterne e non ebbe un vero vincitore, ma l’abbattimento delle torri sedimentò nella memoria popolare attraverso la ballata e la successiva ninna nanna che venivano cantate nelle ore di riposo o di festa nei casolari.
L’importanza della ninna nanna
Come potete cogliere da questa sequenza di ninne nanne, nel momento più intimo del rapporto con il figlio o con la figlia la mamma trasmette la storia e i valori della famiglia e del nucleo sociale in cui si vive, ma contemporaneamente prende coscienza della propria condizione sociale e del tipo di relazione che si sta creando col marito e di conseguenza anche con gli altri membri del gruppo familiare. L’ultimo passo è quello che la porta a scegliere come interlocutrice la figlia, cioè colei che potrebbe essere destinata ad un futuro simile al suo e cerca di usare il suo disagio, la sua delusione come un esempio da non seguire, un’ingiustizia a cui porre riparo.
Se le sembra naturalmente inevitabile che la sua piccola un giorno debba avere dei figli, la madre sembra volerle dire: non farti illusioni, avrai le tue difficoltà, sarà dura, ma almeno affronterai la tua vita con un po’ di disincanto e minori sorprese. Conoscere può preparaci ad evitare, a superare o almeno a distribuire meglio le nostre risorse anche all’interno della tenzone sociale che, ciascun per la sua quota parte, ci attende.