La sua scomparsa improvvisa, ma disegnata sul suo passo lento, sul suo viso sempre più scavato, su pensieri scarniti con impensabile fatica, questo mi resta dell’ultimo Alberto.
Il resto, questi quasi trent’anni al di là di un oceano interrotti da brevi incursioni estive in quelle che erano state le sue calli, i suoi campi, le sue platee, le scene indimenticabili delle sue indimenticabili storie, quelle brevi incursioni si chiudevano, nella mia percezione, con lo smarrimento di chi doveva rinnovare ogni anno un rito d’abbandono tanto lacerante quanto necessario.
Il mio ricordo
Ma così lo sento io, oggi che lo penso giacente inerte su un letto; che l’ho visto mordere il freno di qualsiasi contrarietà; aggredire con provvisoria determinazione ogni ostacolo o aggirarlo se confliggeva con suoi più impellenti obiettivi. Così lo penso io, che con lui ho condiviso un pezzo decisivo della mia, ma credo di poter dire nostra storia.
Il sodalizio con Alberto
Non è stato sodalizio molto lungo quello che ci ha legato in modo continuativo, né semplice, poiché nulla era semplice in quei tempi giovani, con giovani come noi e ci urgeva dentro una gran voglia di cambiare il mondo, senza cambiar troppo noi stessi.
Avevamo storie personali molto diverse, direi per certi versi opposte Alberto ed io e caratteri entrambi piuttosto fieri. Ma avemmo anche una grande opportunità dalla vita e dal momento storico in cui la trascorremmo: il mondo stava cambiando davvero e la nostra generazione di questo cambiamento era tra i protagonisti.
Canzone e impegno sociale con Alberto
La canzone e l’impegno sociale e politico ci indicarono la via, l’impegno personale e le capacità di Luisa Ronchini, di Alberto D’Amico e mio, ci permisero di essere presenze attive sulla scena politico-culturale veneta e nazionale dalla metà degli Anni Sessanta fino al 1972, anno in cui le nostre strade si divisero, per continuare il nostro lavoro con modalità e persone diverse.
Due giovani a sperimentare
In pieno 1968 Alberto D’Amico pubblica il suo primo disco nella collana sperimentale dei Dischi del sole. Erano dei dischi EP, extender play, cioè della dimensione di un 45 giri che però andava a 33 giri e quindi contenevano ciascuno quattro o cinque canzoni. Il disco di Alberto, che non fu l’ultimo, della serie, era l’undicesimo.
Per titolo aveva quello di una canzone “il mio partito saluta Mosca”, ed era fatto, come tutti gli altri, in economia. Si prenotava la sala d’incisione a Milano per qualche ora, uno o al massimo un paio di strumenti e via, possibilmente buona la prima. D’altra parte il nostro obiettivo non era gareggiare con la qualità “formale” dei prodotti dell’industria discografica, ma verificare, sperimentare appunto, se esisteva un prodotto musicale alternativo per i contenuti ma anche per il modo di proporsi, semplice, scarno, diretto, e per i costi sia di produzione che di acquisto.
Quando con Alberto eravamo il Canzoniere popolare Veneto
A quel tempo Alberto, con Luisa Ronchini e con me, cioè con quello che era noto come “il Canzoniere Popolare Veneto”, aveva già partecipato alla prima e alla seconda edizione del folk festival internazionale di Torino (1965 e 1966), alla realizzazione dello spettacolo “Tera e aqua” da cui è stato tratto il LP “Addio Venezia Addio”, e alla realizzazione di decine di concerti su tutto il territorio nazionale, con qualche puntatina anche all’estero (Francia, Svizzera).
Io avevo già inciso nel 1965 per la stessa serie “’Sta bruta guera che no xe finia” e Luisa nello stesso anno aveva stampato per la collana dei Canti popolari italiani “Nineta cara” canti popolari lagunari. I Dischi del sole era la casa discografica del Nuovo Canzoniere Italiano, il gruppo nazionale più importante per la ricerca e la riproposta di canti popolari e nuova canzone sociale e politica.
Catapultato in un folk festival con grande maestria
Per Alberto, che quando venne a trovarci la prima vota nel 1965 non aveva mai cantato se non tra amici qualche canzone di repertori in voga, che non sapeva neanche che esistessero i canti di cui noi ci stavamo occupando e non suonava alcun strumento, ritrovarsi nello stesso anno al folk festival fu certamente, credo, una bella soddisfazione.
Ma va tutta ascritta al suo impegno perché in pochissimo tempo imparò i primi accordi di chitarra, sistemò la sua (bella e potente) voce in modo che rispettasse le esigenze del canto corale e imparò tante canzoni, portandosi a casa dischi e registrazioni (sul magico Gelosino!) e apprendendo tutto con grande rapidità. Facevamo due, tre prove la settimana sperando che prima o poi arrivassero dei concerti. E pian piano cominciarono le richieste e, soprattutto, gli apprezzamenti.
Ma torniamo a quel primo disco di Alberto
“Il mio partito saluta Mosca”, titolo del disco, è anche una dichiarazione di appartenenza politica che avrà certamente stupito più di qualcuno tra quanti conoscevano la sua storia. Ma è decisamente singolare il percorso che le cinque canzoni disegnano all’interno delle “sensibilità” della sinistra più o meno giovanile, più o meno operaia di quegli anni, alla soglia del fragoroso ’68. Un vero e proprio spericolato percorso di rallycross.
Con una perla finale del tutto inaspettata. Il disco si chiude con una canzone che Alberto disse di aver dedicato ad una delle due sorelle, ma che a mio parere descrive anche una parte delle sue angosce, delle sue irrequietezze, circoscrive il brusco rapporto che lui intende stabilire con la società del consumo che, come per tutti noi allora più di oggi, stava tendendo le sue trappole.
Come ascoltarla
Ascoltatela in una registrazione di quegli anni e leggete il testo. Apponete all’inizio dell’ultima strofa il nome e la figura di Alberto, se l’avete conosciuto abbastanza.
Quando l’ho fatto, io vi ho trovato una delle ragioni, e non l’ultima, di trent’anni di ritorni e fughe.
In ogni caso è certamente il ritratto, senza colori, di quella nostra generazione.