Sono nato a Civitavecchia il 6 ottobre del 1941, alle ore 11, in una casa sopra il porto, vicinissima al Duomo. Come sempre, anche per venire al mondo non ho scelto il momento più giusto. Prima di spalancare gli occhi, racconta mia madre, erano le 10 del mattino e stavano suonando le sirene dell’allarme. Sarà stato certo per questo che sono poi diventato, prima un ragazzo silenzioso ed introverso, poi un uomo che detesta i rumori forti. Soprattutto quelli delle voci irate. A 19 mesi, il 14 maggio del 1943 – mentre mio padre con una gamba ferita ed un piede congelato era scampato all’ecatombe russa, ma nessuno sapeva ancora dov’era – ho vissuto la sottile emozione del mio primo trasloco. A sirene questa volta spente, 48 Liberator americani sono apparsi all’improvviso sul cielo della città e hanno cominciato a bombardare a tappeto la città, accanendosi soprattutto sul porto. Un puntatore di cui non ho mai saputo il nome si è sbagliato di pochissimo e invece di centrare una nave, con un reggimento di fanti in partenza per la Sardegna, ha preso in pieno la mia casa.
Anche il trasloco può essere una fortuna
Voi direte che, fatti i conti, è stato un bene; che chissà quante vittime erano state risparmiate; che era un chiaro segno del destino; che comunque quel giorno San Pietro era troppo occupato per ricevermi ed aveva di proposito rinviato tutto. Pensatela come vi pare. Io, per quanto mi riguarda , devo stare ai fatti e quelli parlano chiaro. Mia madre, da donna intrepida qual era ( in tutti i momenti difficili della sua vita ha dovuto sempre cavarsela da sola ) non s’è spaventata e nemmeno in quell’inferno di scoppi e di fiamme ha perso la testa. Mentre dalle orecchie devastate le colava il sangue e il pavimento le ondeggiava sotto i piedi era riuscita ad afferrarmi tra le braccia ed a precipitarsi fuori.
Ma siccome abitavamo al secondo piano e le scale erano ridotte ad uno scheletro informe di mattoni e spuntoni di ferro, per lei – donna di mare – arrivare al piano terra era stato come discendere dal monte Bianco a tempo di record. Giusto in tempo, comunque, per approdare sotto l’architrave del portone d’ingresso, spezzato a metà, ma ancora in piedi, prima che crollasse definitivamente tutto. E in quella confusione, tra l’odore della calcina e del cemento che prendeva alla gola, bianca di polvere e di paura, lì era rimasta prigioniera, senza rendersi conto delle ferite alle braccia, alle gambe e sulla fronte. Io, com’è ovvio, piangevo e questo era già un bellissimo segno perché voleva dire che ero vivo. Ma non potevo certo sapere che sarebbe stato proprio il mio pianto a salvarci.
Un trasloco che salva la vita
Un’ora dopo, infatti, quando con il cuore in gola mio nonno Nicola e mio zio Franco erano arrivati, davanti a quel cumulo di macerie s’erano messi ad urlare con le mani sui capelli. Il palazzo non c’era più e da quel cumulo di macerie nessuno poteva essersi salvato. Altro che trasloco! Dicono che gli angeli custodi non esistono, che sono un’invenzione delle anime semplici e ignoranti. Sarà! Il mio invece c’è, eccome. Non è un arcangelo con gli occhi azzurri, un serafino con sei ali, ma quando serve si fa sentire, perché ha una voce che supera ogni barriera. E siccome mia madre era diventata afona e sempre più rossa per lo sforzo di gridare aiuto, di sicuro quella volta è stato lui ad ingigantire il mio pianto disperato.
Brindiamo con un cognac
Ci siamo salvati così. E quando ci hanno tirati fuori, ridotti a due straccetti, c’è stata la seconda sorpresa. In braccio mia madre teneva me, ma in una mano stringeva anche il collo di una bottiglia afferrata chissà come e perché. Ma di queste cose è meglio non cercare spiegazioni, sarebbe solo tempo perso. Comunque, tanto per la chiarezza, sull’etichetta, bene in vista, c’era scritto: “Cognac Carpenè Malvolti – Conegliano”. Mia madre quella bottiglia se l‘è portata dietro per tutta la guerra e l’ha conservata gelosamente, come s’era promessa, fino al giorno del mio matrimonio. Il Signore mi è testimone: non ho mai bevuto un cognac più buono. Profumava di fiori e di vita.