Ci sta aspettando la primavera. Il suo tepore è simile a un pensiero nascente, un fremuti nell’aria, e avanza verso di noi a sprazzi con il fatale andare dei tempi terrestri che non sempre rispettiamo. E mentre l’inverno comincia a liberarsi della sua maschera di gelo e di morte, noi accantoniamo le mascherine nel plein air e ci prepariamo a una svolta che richiede il coraggio della ripartenza mentre abbiamo ancora addosso e di fronte il peso (la condanna…) del virus invasore. Cambia il vento, e quasi tutto finalmente tende a smuoversi: non è facile in questa realtà predatrice e rugginosa che risente il vuoto del tempo perduto che ciascuno ricorda al risveglio di ogni giornata. D’improvviso, dalla notte al giorno, nascerà presto una nuova stagione e il suo soffio ridurrà a sfocata eco il frastuono dei trascorsi dolori.
Tutto questo, però, è soggetto alla sorte e, soprattutto, alle nostre coscienze- Se, infatti, non c’è un alito di primavera anche nel nostro intimo – cuore, anima – il tepore dell’aria non avrà il profumo del nuovo.
Versi d’una canzone lontana
Forse non è approdata in un qualche Festival di Sanremo, ma nei giorni dell’edizione 2022 nella mia mente sono risuonati alcuni versi di una canzone “sociale” che parlava di migranti italiani, e la cantava il melodioso Luciano Tajoli (1920-1996):
“…. vanno incontro alla sorte
per non morire.
E vanno, tanto lontano vanno…
negli occhi hanno un velo di pianto
mentre la nave vaaaaaaaaaaaa”.
Perché siamo stati stranieri in terre lontane (come già ne parla la Bibbia) ma noi italians di oggi abbiamo perso – o stiamo perdendo velocemente – il ricordo delle radici strappate, dell’Altrove ostile alla nostra gente, il salario che sapeva di sangue, versato per una terra che non ci era patria.
L’eco di quei patetici versi salvati dall’oblio (chi scrive li cantava andando in bicicletta per le strade del Polesine) rimette in scena, nella mia e nostra memoria, le voci dei compaesani che nella loro lingua di poveri, il dialetto, approdati in un altro mondo non scrivevano canzoni ma lettere struggenti: dal profondo geografico della Terra, graffiavano sulla carta una parola alla volta, con la stessa passione dei soldati contadini accucciati dentro le trincee del Carso: non c’era canto in quelle paginette vergate da calligrafie semi infantili, ma c’era tanta umanità sradicata e sofferente, prigioniera del destino.
Questo incessante andare dell’Uomo da un luogo all’altro della Terra ci coinvolge come stirpe: è storia nostra. È “il grande fiume della vita” che scorre nel tempo. In altre parole, “nel grande scenario geografico ed ecologico dell’evoluzione, la corrente della vita fluisce sulla superficie terrestre”. E, ancora: “Migrare non comporta che vi sia un altro luogo in cui insediarsi… né che si sappia cosa significhi insediarsi altrove, né che vi sia un ritorno…”
Ma da dove nasce questa spinta a voler sempre vedere se si sta meglio dall’altra parte della collina? Troviamo le risposte nel libro Libertà di migrare del giornalista Valerio Calzolaio e dello scienziato Telmo Pievani (Einaudi 2016).
Un angelo per amico?
Il papa si è commosso parlando in tv con Fabio Fazio, sul volto il turbamento che proviamo davanti all’indicibile. È stato quando nel dialogo si è toccato l’argomento del male che colpisce i bambini. Perché loro, perché il dolore degli innocenti? Chi scrive si è ricordato, allora, che le suore dell’asilo inculcavano nella nostra mente l’idea che ogni bambino fosse protetto da un Angelo custode. Era un’invenzione gentile del piano educativo cattolico, e durava poco, fino alla stagione dei perché. Se ho questa specie di guardia del corpo che mi difende, perché mi lascia soffrire se mi ammalo? Perché non mi ha protetto quando sono caduto dalla bicicletta? Tanti interrogativi spersi nel vento. Fino alla domanda più sconvolgente che si pongono i “grandi”: Perché muoiono i bambini? Dove sono finiti gli angeli custodi?
E qui, più che la fede, tenta di rispondere l’immaginazione: l’angelo – sia pure in una fiaba – non può andare contro le leggi di Natura, può solo gioire e soffrire con il suo protetto, addirittura fino all’incredibile: cioè offrendosi in sacrificio per il suo protetto, cioè morendo con lui. Domanda: ma, allora, anche gli angeli muoiono? Risposta possibile: sì, muoiono, ma per amore, solo per amore.
Pensiero finale: non tutto, in televisione, è banale divertissement.
Amare gli altri è una pesante croce
(poesia)
Amare gli altri è una pesante croce,
ma tu sei bella senza ghirigori,
e il segreto della tua vaghezza
è l’enigma risolto della vita.
A primavera si sente il frullare dei sogni
ed il fruscio di novità e certezze.
Tu sei della stirpe di tali principi.
Come l’aria il tuo senso è spassionato.
È facile svegliarsi e veder chiaro,
spazzare dal cuore il pattume verbale
e vivere senza intasarsi in anticipo.
Tutto questo è una piccola scaltrezza.
1931
Boris Pasternak
Da Poesie, Einaudi 1959