Dopo la Festa della Liberazione senza la libertà di uscire e il primo maggio in cui tanti non hanno potuto lavorare, finalmente è arrivata una festività nazional popolare che nessun DPCM ha potuto arginare: la vittoria dello scudetto. Il fatto che non sia una festa che coinvolge tutta la popolazione conta poco: i tifosi dell’Inter sono tanti, abbastanza da riempire piazze e strade, e avevano molta voglia di celebrare. Ancora una volta la vitalità rompe gli argini. Ancora una volta ci mostra che l’Italia, se vuole, non può essere contenuta. Ancora una volta ci mostra che, nel nostro paese, il calcio è una delle poche molle che muove una massa di persone tale da avere effetti. Forse aveva ragione Churchill quando diceva che gli italiani vivono la sconfitta in una guerra come fosse stata una partita di calcio e la sconfitta in una partita di calcio come fosse stata una guerra.
Chiariamo subito una cosa: i festeggiamenti dei tifosi non mostrano le crepe di un sistema di contenzione ormai portato avanti per (forse) troppo tempo. Già l’anno scorso, in periodi diversi, Bergamo ha pagato a carissimo prezzo l’entusiasmo e gli assembramenti per l’Atalanta in Champions e per la partita con l’Atletico. Mesi dopo, quando sapevamo meglio del virus e della sua diffusione, Napoli ha visto le folle in piazza per la Coppa Italia. Se i festeggiamenti per lo scudetto dell’Inter ci dicono qualcosa è che la passione calcistica vince sui diktat istituzionali e anche sulla ragionevolezza. Ma non direi che si tratta di un’informazione nuova, che potrebbe cogliere molti di noi di sorpresa. Per cui escludiamo che i festeggiamenti per lo scudetto siano stati un modo per gridare in faccia ai governanti e alla polizia un disagio profondo e protratto per troppo tempo. No no, si è trattato proprio di una festa, di una gioia incomprimibile che è esplosa riversandosi nelle strade. Per fortuna che Mourinho non aveva ancora annunciato che avrebbe allenato la Roma l’anno prossimo.
Davvero è arrivata l’ora del “liberi tutti”?
Questo è il pericolo più concreto: la diffusione del pensiero che ormai è tutto finito e si può fare come niente fosse. Le persone che hanno visto la festa, la gente ballare in piazza, sono state esposte a una scena che ormai ci sembra di un altro mondo e questo ha una potenza che non deve essere sottovalutata. Queste scene, inoltre, si innestano in un periodo di progressive riaperture, facendo sembrare l’assembramento una conseguenza naturale dell’avviarci verso la conclusione dell’emergenza. Il problema è che non è tutto alle spalle, non c’è nessun “liberi tutti” e non ci sarà ancora per un po’ di tempo. La scarsa chiarezza in merito da parte delle istituzioni è comprensibile ma potenzialmente rischiosa. Con tutta probabilità avremo sempre più aperture e possibilità nel corso dell’estate, poi ci sarà un periodo di parziale restrizione precauzionale e fortissima osservazione in autunno e poi potremo veramente dire cosa succederà. Quindi non potremo dire di essere “fuori dal tunnel” prima di gennaio prossimo, farlo sarebbe fuori da ogni senso scientifico, e far passare questa idea potrebbe essere estremamente pericoloso. La vita dopo l’emergenza dovrà essere pensata e costruita, e non sarà come prima: pensare che possa essere iniziata o rappresentata da un’inondazione umana nelle strade è sbagliato e limitante. Sta a tutti noi mantenere alta l’attenzione e non farci trascinare dall’entusiasmo, anche quando vorremmo, e dagli eventi.