
Il “Chief Happiness Officer” (CHO) era un’idea di figura manageriale deputata ad occuparsi della “felicità” dei lavoratori, che negli anni passati ha avuto un momento di popolarità fino a diventare “di moda” tra le aziende. Personalmente, ho ritenuto questa moda qualcosa di tutto sommato positivo: anche soltanto l’idea che le organizzazioni volessero qualcuno per gestire la “felicità” di lavoratori e manager significava quantomeno attenzione alla sfera emotiva e alla dimensione soggettiva.
Tuttavia, ho espresso più volte anche la mia perplessità su tale figura per via di una serie di debolezze che trovavo in ogni articolo ne parlasse. In primo luogo, era chiara un’assenza di omogeneità nella formazione dei CHO: diverse società proponevano percorsi più o meno lunghi con focus più o meno coerenti, nonostante l’esistenza di un filone internazionale di studi molto serio e ben definito sulla felicità. Poi, emergeva il problema delle attività che questa figura dovesse svolgere e i suoi poteri nell’organizzazione. Le iniziative nelle aziende che sperimentavano l’inserimento di un CHO sembravano spaziare dalla normale gestione delle risorse umane – però con l’aggiunta della parola “felicità” – ad attività di formazione esperienziale anche interessanti ma non straordinariamente innovative.

Il problema di fondo, più generale, era però un altro: le aziende stavano diventando delle realtà totali, in cui la persona era tenuta a passare tutto il proprio tempo e veniva incitata a tenere ritmi sempre altissimi. Per tamponare questa grande quantità di stress a carico dei lavoratori, le soluzioni aziendali erano troppo spesso legate a soluzioni come l’acquisto di poltrone a sacco, il dipingere le pareti con colori pastello, il mettere a disposizione tavoli da ping-pong per le riunioni, l’installare scivoli a fianco alle scale e l’offrire servizi di mensa in sale con sedie gialle e blu e l’immancabile opzione etnica. Attenzione però: non tutte le aziende hanno declinato questa cultura in modo eccessivamente eccentrico e giocherellone, molti sono stati seri fin dall’inizio in tema di benessere dei lavoratori. Inoltre, per correttezza, bisogna anche dire che si tratta comunque di un’interpretazione culturale del lavoro migliore rispetto alle filande inglesi dell’800.
Comunque, nei fatti, vedevo alcuni esempi di gestione del benessere in azienda e anche la figura del Chief Happiness Officer come qualcosa di un po’ incompiuto, forse più utile ad attrarre l’attenzione dei rotocalchi e a ricercare la “bella figura” con gli stakeholder piuttosto che a fare veramente la differenza.
Il COVID-19 e la salute nelle aziende

La pandemia ha cambiato radicalmente le prospettive delle persone e delle aziende. Il concetto stesso di benessere è mutato, andando a spostarsi sempre di più verso l’avere certezza di alcuni beni materiali e relazionali primari. La mentalità di oggi, con tutte le differenze e i distinguo del caso, sembra più “da guerra”: tra le incertezze e le difficoltà si lasciano i fronzoli e ci si concentra su quello che serve. Diciamo che siamo entrati in un periodo più “concreto”, più attento alle cose che importano veramente e che rimangono. Certe idee di benessere aziendale che potevano sembrare all’avanguardia – o, per gli scettici, simpatiche – due anni fa oggi sembrano fuori luogo: nessuno penserebbe che la priorità sono scivoli o piste interne per i monopattini, bar per i venerdì sera e serate quiz con i colleghi. L’effetto che queste idee fanno su molte persone è simile a quello di alcuni eccessi degli anni ’80, periodo certamente memorabile e da non cancellare, ma non perfetto e non destinato a durare più del suo tempo.

Quindi il benessere oggi è più salute e meno “happiness”, più libertà e meno “leisure”. Però è bene ricordare che il concetto di salute nella sua accezione contemporanea comprende anche concetti come la felicità e il divertimento. Infatti, l’attuale definizione di salute dell’OMS, il “pieno benessere fisico, psicologico e sociale”, comprende tanto l’assenza di malattia e di dolore quanto il pieno godimento della propria libertà, la consapevolezza delle proprie possibilità, le buone relazioni, il possesso di abilità e competenze. Non potremmo fare errore più grave di interpretare la salute nell’accezione ottocentesca di assenza di malattia: in questo modo la visione contemporanea non sarebbe più concreta ma più misera. La salute non è un bene che si può solo perdere e (con un po’ di fortuna) ripristinare: è un bicchiere che può essere riempito ogni giorno e che non ha limite di capienza.
Le aziende hanno già un ruolo nel garantire la salute dei lavoratori, hanno medici competenti ed RSPP con compiti molto importanti, ma oggi possono e devono scendere in campo e giocare la partita della salute mentale, senza la paura che tale parola ha provocato in epoche passate perché la cultura è cambiata e c’è bisogno di tutela e supporto.
Il Chief Mental Health Officier

In questa prospettiva, le aziende hanno necessità di gestire la salute mentale con professionalità e in modo da dare e avere certezze. Tale bisogno è anche legato a rischi dovuti alla rapidità dell’evoluzione normativa e alle richieste dei lavoratori. Le uniche figure professionali con le caratteristiche per gestire la salute mentale sono quelle della salute, cioè i medici e gli psicologi. Tali professionisti, in possesso di abilitazioni e riconosciuti da parte dello Stato, possono essere efficaci nella loro azione – e anche tenere l’azienda al sicuro – riguardo ai compiti che, in scienza e coscienza, svolgono a favore delle persone.
Ma c’è di più: oltre che di competenze e professionalità adeguate, nelle aziende c’è anche bisogno di un ruolo dedicato e altamente specializzato. Coerentemente con quanto già detto, si sta affacciando nel panorama internazionale la figura di “Chief Mental Health Officer” (CMHO), una persona con compiti di coordinamento delle attività a tutela della salute mentale e del benessere delle persone oltre che, eventualmente, di intervento in prima persona. Le attività dirette e coordinate dal CMHO sono di ordine primario (prevenzione), secondario (potenziamento/formazione) e terziario (clinico/riabilitativo): si spazia dal rendere le persone più abili e più resistenti al prendersene cura se stanno male. Questo è un paradigma di salute contemporaneo ed esteso.

Dal punto di vista delle qualifiche formali, è necessario che il CMHO possa interfacciarsi da pari con i Dirigenti del Servizio Sanitario Nazionale, con i quali deve gestire una costante collaborazione, e possa così garantire al massimo la sua azienda in ogni sede. Pertanto, la scelta si restringe a medici specialisti (con ampia formazione in ambito psicologico) e psicologi-psicoterapeuti. Personalmente vedo in generale gli psicologi-psicoterapeuti più versatili e con maggiore potenziale per via di una sensibilità al concetto esteso di salute che viene già dalla formazione universitaria e un minore grado di “iper-specializzazione” rispetto a figure con un background medico, tuttavia ogni specialista può costruirsi una professionalità più che adeguata. Una figura come il CMHO non deve essere necessariamente strutturata all’interno dell’azienda: esistono esempi di successo di consulenza esterna continuativa. Una cosa però è fondamentale: che abbia possibilità di azione concreta e che goda di fiducia trasversale in azienda: la salute parte da qui.
La sensibilità più concreta, forse “dura”, che si è venuta a creare durante la pandemia non è necessariamente negativa: se recuperiamo i fondamentali e ne ricordiamo il valore potremo ripartire nella giusta direzione. La figura del CHO non era male, come non lo erano gli scivoli in azienda, ma il CMHO può essere meglio e coniugare gli aspetti positivi del benessere “giocoso” e della salute professionale.