Ci sono numeri e ci sono persone; ma a volte, purtroppo, le persone, dette anche individui, vengono incluse in un elenco e diventano materia statistica. Questi numeri ci chiamano, specialmente in situazioni tragiche nelle quali vediamo disperdersi e svanire il valore della persona uomo o donna, e tutto si trasforma in cifre su un video: le vediamo per qualche attimo, e subito le inghiotte il non spazio digitale. “Si direbbe”, ragiona il saggio, “che in quei momenti anche i numeri muoiono”.
Prendiamo le vittime di un cataclisma come la guerra: questo mostruoso macello di nostri simili viene trasformato – e sfigurato – come mai prima dal Sistema dell’informazione: la realtà viene raccolta e macinata dentro meccanismi che sembravano collocati nel futuro e invece sono già qui, nel nostro presente: non c’è limite alla rappresentazione dei “disastri della guerra”, così come non c’è riparo per l’intimità delle persone (tanto, sono numeri, no?). È la spettacolare tragedia quotidiana e il palcoscenico è il mondo.
Ne scrivo oggi per un motivo che mi tocca: fra le vittime dei conflitti a noi più vicini ci sono stati molti giornalisti: arrivano da ogni parte del mondo, e sono gli inviati ai fronti più diversi e frequenti con il compito narrare il flagello dall’interno. “Vanno alla guerra, e sono disarmati” dice una voce interiore. Il legame professionale acuisce la pietas che provo nell’intimo per le vite sacrificate sull’altare di potenti ideologie o religioni in conflitto. La colleganza consente di identificarmi con loro, e perciò posso dire di sentirli in mezzo agli altri: non li ho mai incontrati, eppure è come se li conoscessi. Forse sono eroici, sicuramente onorano il loro mestiere.
L’invasione green
“Non è più la campagna di una volta”, viene da dire pur sapendo che è un pleonasmo, ma le recenti “cavalcate degli agritrattori”, esibizioni polemiche, spettacolari e anche violente, fanno pensare a una risorsa – la campagna – che rischia di diventare una diffusa arma politica, anzi è già diventata addirittura una bandiera partitica. Gli agricoltori rifiutano la politica “green” dell’Unione europea che, dicono nelle piazze mediatiche e urbane, brucia i loro guadagni. E denunciano il pericolo di accordi stipulati sopra la loro testa fra la Ue e l’America Latina per l’importazione di prodotti agricoli più o meno in contrasto con la legislazione Ue. Vista da casa nostra, la rabbia di questi produttori nasce e viene alimentata dalla paura: temono infatti, fra l’altro, che l’invasione green non sia green per niente.
E qui il vecchio cronista vede, in parallelo, un particolare che forse sfugge ad altri: quei prodotti agricoli extra europei denunciati come pericolosi per i loro effetti sui consumi di casa nostra, assomigliano molto a quelle specie animali che, come il granchio blu, i siluri nel Po, i gamberi giganti nei fiumi, gli insetti alieni provenienti da altri mari e da altri continenti, si annidano nei nostri ecosistemi e vi si insediano provocando danni devastanti. Con la differenza, rispetto ai prodotti extra europei, che questi animali “stranieri” non pagano dogana.
Una voce sofferente
“Ma perché non alzate la voce, perché non denunciate?”
La voce non è mai la stessa, la domanda, invece, sì. La voce è di una infermiera di turno, indaffarata, o di un medico affaticato dal carico di lavoro. Anche il luogo è lo stesso: un ospedale veneto, dove circola una parola pesante: i vertici della Sanità regionale “dicono bugie”. Salvo esperienze dirette, basta incontrare un conoscente reduce da una giornata al Pronto soccorso e subito si apre il sipario dell’esperienza vissuta, anzi patita con rabbia.
Non sono solamente lamentele, ma veloci relazioni a mezza voce, e con affanno: fitte di date, di orari e rifiuti (“Io ho finito, venga domani”), di sgarberie che non ti aspetteresti in un luogo di sofferenze. Eppure accade. E qualcuno ammette che la realtà è seria: “Il personale diminuisce, continuano a scappare, e Dio sa se non vorrei farlo anch’io. Se ne vanno via da qui, siamo al limite”.
E poi succede che quando incontri un medico o infermiere cortese, anzi straordinariamente umano, ti dimentichi della malasanità e di certi operatori che sembrano uscire da un cantiere anziché da una scuola professionale, e ritrovi l’empatia, la solidarietà e ti commuovi.
Questi racconti li ha ascoltati chi scrive, ma altri dovrebbero conoscerli, per esempio dalla voce spezzata di D., una moglie che fotografa il calvario vissuto dal marito ormai da un mese.
Non ho l’età per fare inchieste, ma registro le voci dei sofferenti, catturati da un servizio pubblico… in sofferenza.
Stagione dell’azzurro
(tre haiku)
I
Papaveri, profumo marcante
mentale profumo?
Perché tenete spalancato il vostro
occhio, perché così vivi
così unicamente vivi?
II
Traboccherà presto dalla culla
fra giovani mai stanche piogge
ogni nuovo paesaggio,
non sarò necessario né oro né raggio
solo il volto lavato, amante l’occhio.
III
Gli stillicidi delle nebbiose piogge
che lasciarono imperlati
tutti i paesaggi
dicono futuri e futuri
con vocali di diamante.
Andrea Zanzotto
Nota
Questi tre haiku sono una rarità: il poeta solighese li incise, nella primavera del 1984, su una serie di mattonelle del Cottoveneto: quattordici “autografi su pietra”, per aderire a un’idea e su invito dell’amico Mario Sutor, poeta e industriale trevigiano.