Per una buona parte dei veneti, il mese di settembre ha portato una buona notizia: a Roma, domenica 4, papa Luciani è stato proclamato beato e domenica 11 Canale d’Agordo, il suo paese natale, lo celebra in piazza. Fra le motivazioni e le testimonianze pubbliche di questo evento, l’Anonimo si inserisce con un piccolo ricordo personale. Si tratta di un gesto di umiltà, caritativo e commovente, compiuto dal cardinale Albino Luciani appena arrivato a Venezia da patriarca.
È stato il suo primo incontro con la città, un luogo periferico rispetto alle istituzioni destinatarie della visita ufficiale: Lui ha scelto il carcere femminile della Giudecca. Un luogo d’ombra sociale e di afflizione da cui il futuro papa ha raccolto e portato con sé per sempre la sofferenza che gli comunicavano quelle donne che lo aspettavano con curiosità e fervore; ma l’emozione è stata – per tutti noi – ancora più intensa quando, fra le recluse, il patriarca ha avvicinato quelle che tenevano in braccio un figlio: bambini carcerati! La commozione era palpabile.
In quel luogo di dolore e di espiazione, ai suoi occhi caritatevoli non c’erano colpe ma costrizione di umanità, orizzonti chiusi, speranze perdute… Mentre, nel primo mattino in motoscafo accompagnavo il patriarca e il segretario don Mario alla Giudecca, mi sono ricordato una terzina di Dante, quella che dice: “Per me si va ne la città dolente, / per me si va nell’etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente.”
L’ho recitata a memoria, in silenzio. Ma le parole del poeta hanno accompagnato come un’eco tutto quell’incontro confidente, volutamente lontano dall’ufficialità e dalla solennità dei riti pubblici: quella mattina, a Venezia, si è svolto un dialogo quasi privato; il visitatore vestito di porpora era venuto per loro, la perduta gente, e adesso era lì, in tutta semplicità (quasi intimidito) a tu per tu con creature le cui colpe erano sepolte in un archivio di carte bollate e adesso, umanamente disarmate, erano in tensione davanti all’uomo che portava loro, con la speranza di futuro, il perdono e l’amore più forte dell’umano.
Non ricordo le loro parole di allora: hanno pregato insieme, guardandosi da vicino, e quegli sguardi, e i sorrisi dei bambini sono indimenticabili.
Il martire e il leghista
Ah la cultura, che cos’è mai? È un sapere, d’accordo, ma è anche una memoria alimentata dal sapere. Virtute e canoscenza dice Ulisse (all’inferno per altri motivi) rivolto orgogliosamente al Poeta. Ma è cultura, per dire, anche raccogliere momenti di vita passata, magari ritagliando un articolo di giornale. Un mio vizio, questo.
L’esempio più recente, intitolato “La battaglia intransigente di Matteotti” firmato da Marzio Breda sul Corsera ha come pretesto la pubblicazione di un cofanetto di volumi intitolato Matteotti racconta (Domus mazziniana e Università di Pisa editori). Breda, che ha le antenne del grande cronista, ci ricorda che c’è tanta ignoranza e malafede e velenose nostalgie in giro.
Lo fa citando un uomo pubblico, un consigliere comunale di Treviso, il leghista Giorgio Torresan che tempo fa ha sollecitato la cancellazione del nome del deputato socialista di Fratta Polesine (Rovigo) per ripristinare il nome della locale piazza del Grano.
Motivazione? Eccola, registrata e consegnata alla storia: “Io Matteotti non so chi sia. Non l’ho ma visto (fu assassinato da sicari fascisti nell’agosto 1924…). Quella era Piazza del Grano. Richiamiamola così. Con il grano si mangia, mentre con Matteotti non ha mangiato nessuno”.
Questo non si può chiamare dissenso politico (leghista contro socialista democratico). Che cos’è, dunque? Assomiglia molto a una vigliaccata contro un uomo morto, martirizzato per i propri ideali di libertà e democrazia.
Non senti puzza di stantio ideologico già sentito nell’incredibile motivazione del consigliere trevigiano? E non è nemmeno solo. Ricordiamo: “Con la cultura non si mangia” (firmato dall’allora ministro Tremonti).
Prime nebbie
(poesia)
Si va solitari nella foschia,
i passi portano nell’altrove
che non si mostra.
Vagabondi a mo’ di foglie
si muovono i miei pensieri
e vanno, e vanno come
nella canzone dei migranti.
Immersi in quel velame
profondo come il mare
che chiamiamo nebbia
si vaga verso “periferie
esistenziali”, viaggiatori
orfani di un destino o meta.
Pensiero di ritorno: nebbia
è anche “l’indifferenza
al vero e al falso”
e all’altrui dolore
che oggi come sempre
ci coglie senza far rumore.
Anonimo 2022
Quanti bei ricordi ha Ivo Prandin! E come sa trasmetterli con vivacità e commozione tanto che mi sembra di riviverli anche se non c’ero.
In quanto all’ignoranza che appartiene a tanti nostri politicanti mi sento colpevole perché come insegnanti non siamo riusciti a trasmettere né i valori né le nozioni: io credo che il leghista non sapesse veramente chi era Matteotti . Che non gli ha dato da mangiare!