Le parole, i numeri graffiti, i simboli incisi, le immagini stampate: tante forme di linguaggio, tanti modi di dire e di ricordare. Una passeggiata in montagna, nel Primiero, è un incontro con i segni comunicativi dei montanari rievocati in una mostra a Siror: “La fràbica delle scritture”. Cose semplici come una data scavata in una trave a far memoria di un inizio, di un restauro oppure il simbolo della religiosità cristiana – e tutti questi “segnali di presenza” vengono da lontano ma abbastanza leggibili, come una data vicina alla famosa peste del 1630 narrata dal Manzoni. Commoventi i diari della Prima guerra mondiale.
Lungo la via, ho scoperto un esempio moderno di sensibilità popolare: un vecchio tabià, che sopravvive nel contesto di villette, condomini, alberghi e impianti sportivi. Sul frontone di tavole e travi saturi di intemperie, c’è una piccola croce di legno avvolta da vari giri di spago: è una croce nuda, cioè senza il Crocifisso: è quel che rimane di un supplizio che ha trasformato nel Risorto il Cristo “appeso”– un segno potente e raro, o inusuale, nella sua carica di fede (per nulla ingenua). Accanto, un vaso con fiori finti, resistenti ai fenomeni atmosferici, detti anche logorio del tempo: insieme alla croce, sono testimonianza di un pensiero che va oltre la finitudine degli esseri e delle cose, attratto dall’eternità. In questa visione, il Cristo, che si è liberato dai chiodi, è il garante di un destino glorioso. I fiori sono preghiera.
E noi, perseguitati dalla pandemia, con quali segni trasmetteremo la nostra paura, la speranza di futuro, la nostra epocale avventura terrestre?
Nella dimensione terrena
I virus infestanti e cattivi che ci tormentano non si trovano nelle rocce o nelle fibre degli alberi: la loro specie “preferisce” abitare – è il verbo giusto – nel corpo di animali selvatici e (ahinoi) nell’Uomo: siamo il loro habitat. E’ un fatto che spesso dimentichiamo, cioè la nostra natura biologica. Semplice: noi della specie sapiens siamo animali, anzi “siamo tutti animali” come si premura di ribadire in apertura del suo libro Il dopo (Mondadori-Corsera) la scienziata virologa Ilaria Capua.
La nostra “animalità” non è un limite, è un fatto. E non ci ha evitato di diventare i dominatori del mondo, inclusi gli altri animali. Insomma, saperci animali non deve deprimerci: è il nostro destino, cioè la nostra “dimensione terrena” fondata sulla caducità. Diciamoci la verità: stiamo vivendo sulla Terra, tutti, “a tempo”, insieme ai virus e alle balenottere, alle foglie e alle Dolomiti!
Ma c’è un altro elemento che completa il quadro, ed è un particolare importantissimo: noi animali umani siamo animati: questa energia di cui siamo carichi, altrimenti detta anima, questa coscienza di noi e degli altri cambia lo scenario, e infatti siamo in grado di vincere il determinismo, di superare la materia. Non siamo dotati di artigli e zanne ma di un’arma potente che è il pensiero, e questo significa avere la creatività, l’arte del vivere, la filosofia, l’etica, la fede religiosa, la passione civile… La pandemia è come un’eclissi, passerà, ma noi resteremo.
Verba volant, è vero. Però…
Però calano spesso su un foglio e lì rimangono, coraggiose e provocatorie, in attesa di essere rivelate. Per esempio, quelle che ha scritto , 92 anni, decana dei giornalisti italiani, a proposito dei deliranti no vax. Ironizzando ma non troppo, ha espresso il sospetto “che molti degli urlanti, il vaccino lo hanno fatto e la loro furia è soltanto una posizione politica, oppure un grido di generica disperazione” (La Repubblica). Parole così non volano via.
Fantasia montanara
(poesia)
Ho sognato Buzzati fra le nubi
delle Pale di San Martino.
Le nubi nascevano
dalle rocce irradiate dal sole
delle altitudini
e sciamavano in gregge
luminoso sulle rotte celesti
lasciando a noi
(giù a Transacqua)
grandiose ombre migranti.
Era un poeta il loro pastore.
(Anonimo)